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martedì 26 ottobre 2010

lo scrittore della Croce Del Sud


Per me Punta Arenas è soprattutto uno scrittore: Francisco Coloane.

Per questo, soprattutto per questo, volevo ritornare da queste parti, prima di imbarcarmi per l’Antartide. Per riempirmi gli occhi della baia che ha accolto le ceneri di un uomo che con le sue parole mi ha dischiuso un altro mondo.
Coloane ha vissuto più di novant’anni, per raccontare la Patagonia, la Terra del Fuoco, l’Antartide, le storie e gli uomini che hanno abitato questi luoghi meravigliosi e impossibili.
Di questi luoghi ha saputo cogliere la dimensione fantastica e avventurosa. E se c’è riuscito credo che ci possa essere solo una spiegazione: prima di riversare il suo talento in molte pagine che mi hanno strappato il cuore, Coloane questi luoghi li ha vissuti, con tutto se stesso. Ha conosciuto la Patagonia più selvaggia e romantica.
Da queste parti era arrivato negli anni Venti del secolo scorso, da ragazzo. Aveva incontrato le prime lotte del movimento operaio e contadino nelle grandi tenute dei Menendes, forse i più importanti latifondisti dell’intero pianeta. Aveva navigato nel Pacifico con uomini che oggi stentiamo a non avvolgere in un’aura di leggenda, eroi di un duro tempo da pionieri.
Qualche isola era ancora abitata da pochi indigeni sopravvissuti. Li conobbe, ne raccolse le sofferenze, in anni in cui questo era tutt’altro che scontato, ne denunciò il massacro. Raccontò la cancellazione d’interi popoli a opera di trafficanti di pelli, affaristi, missionari,
 galeotti, soldati senza onore e senza pietà. Cacciatori degli Indios è appunto il titolo di uno dei suoi libri, che io custodisco religiosamente, uno di fianco all’altro su uno scaffale di casa.
Coloane, insomma, non cantò solo la magia di questi luoghi, seppe trovare la voce anche per i loro orrori.
Un giorno, ormai molto anziano, tornò da queste parti, per ripescare i sogni della sua gioventù. Ne ritrovò pochi e distillò l’amarezza in queste parole:
Forse progresso e bellezza non possono navigare assieme senza subire naufragi.
Coloane è morto a Santiago del Cile. Era l’agosto 2002. Il suo grande amico Luis Sepulveda, un altro grandissimo scrittore che ci ha regalato il continente sudamericano, ce lo ha ricordato così.
Con lui qualcosa di nuovo è entrato nella casa della Letteratura, il rumore del mare in tempesta e le voci di migliaia d’avventurieri sperduti nelle pianure della Patagonia e nella desolata solitudine della Terra del Fuoco.
Spesso e volentieri l’immaginazione non trattiene la virtù della modestia. E io guardando queste acque, ma- sticando queste parole, posso davvero sentirmi a mio agio nelle vesti stracciate di uno qualsiasi di quegli avventurieri sperduti.

martedì 19 ottobre 2010

Isole Galapagos



GLI ANIMALI CHE IGNORANO L’UOMO !

Quando il gommone attracca sulla lingua di lava dell’isola Isabella lo spettacolo e’ davvero stupefacente. A un tratto l’azzurro intenso dell’oceano avvolge di spuma le scogliere nerissime e rimani con lo sguardo sperduto al di là delle dune bianche . Rimane li, ferma e severa, con il muso verso il sole l’iguana marina su cui rischio di inciampare. E’ strano , una delle cose che attraggono di più quelli che conoscono le Galapagos solo per sentito dire sono le tartarughe giganti che si chiamano appunto “Galapago”. Bisogna venire qui per accorgersi dell’incredibile mondo di creature a noi sconosciute che abitano un pianeta che sembra venire da un altro spazio siderale. Mi rendo conto che chiamarle “creature”, qui dove Darwin ha concepito l’origine della specie, è perlomeno insolito ma assomiglia veramente a un immaginario giardino dell’Eden. Queste creature, ispiratrici di una rivoluzione nel pensiero scientifico, sono le uniche al mondo che si disinteressano dell’uomo e agiscono ignorandolo del tutto. Cominciamo dalle Iguane Marine. Pigre e graziose nella loro mostruosità primordiale si scaldano il ventre immobili nei caldi scogli di lava vulcanica. Fanno raramente il bagno, preferendo le alghe che crescono negli scogli lambiti dalle onde. Nere con i riflessi dell’arcobaleno si distinguono da quelle terrestri per il muso piatto. Si è evoluto cosi per brucare le alghe che poi è il loro unico cibo.

Gli uccelli hanno avuto la sorte migliore nel lungo processo evolutivo. I cosi detti fringuelli di Darwin hanno dato vita a sedici specie prima sconosciute, tutte diverse tra loro per la forma del becco e per i colori vivacissimi. Tutti ci saltellano attorno nella speranza di avere un po’ di acqua dolce.

Che dire poi dei grandi uccelli! Le Fregate, con i maschi che si pavoneggiano mostrando e gonfiando il gozzo rtosso vermiglio o gli Albatros che oscurano il sole quando volano in formazione. Ma il più bello di tutti è lui: l’Azula dalle zampe azzurre. Danza nel corteggiamento alzando una zampa alla volta e regala alla compagna un rametto profumato che porta nel becco. Puoi sederti accanto a loro e contemplarli per ore senza stancarti. Anche una specie di Pinguini è arrivata alle Galapagos. La più piccola del mondo generando un miracolo di questo arcipelago: gli abitanti dell’Antartide che si sono adattati in isole sulla linea dell’equatore. Con loro e con le Otarie possiamo nuotare tranquillamente.

Tante altre specie meriterebbero un piccolo pensiero ma rischio di annoiarvi .


























venerdì 15 ottobre 2010

Un Nobel alle mamme di Plaza De Mayo







L'assegnazione del Nobel per la pace a Liu Xiaobo è certamente una notizia che riempie di gioia. Ma, purtroppo mi spiace constatare che anche questa volta l'alto riconoscimento è stato negato alle madri e alle nonne di Plaza De Mayo.

 Alle tre del pomeriggio il caldo è opprimente in piazza De Mayo. Però sono contento di stare camminando con le Madri, anche solo il tempo per fare il giro della piazza. La cosa giusta da fare.
 Da fare da oltre trent’anni, perché è da tanto che tutti i giovedì queste donne si ritrovano e marciano con i loro cartelli e i loro fazzoletti bianchi. Ormai sono rimaste in poche, ma va bene così.
Ormai mi vedono quasi ogni anno e mi salutano con affetto. Ho parlato di loro in Antartide e nel mio primo libro Le Nuvole non chiedono permesso.
  Torniamo a piedi al numero 1584 di via Hipolito Yrigoyen, dove c’è la loro associazione. Più che una sede è un grande centro sociale.  Con le sue stanze per le riunioni, le sale per il cinema, il teatro assomiglia alle nostre vecchie case del popolo, prima che diventassero discoteche. La libreria è propria all’entrata e mette a disposizione libri e pubblicazioni di ogni genere. Per la maggior parte riguardano la sinistra radicale e movimentista di tutta l’America Latina: questo fa parte di una scelta politica ben precisa delle Madri.
Mi commuove sempre un grande stanzone, dove si preparano gli striscioni delle proteste e dove sono accatastate migliaia di cartelli con le foto dei figli e dei nipoti desaparecidos. Ora non lasciano quasi più questa stanza, le foto dei ragazzi e delle ragazze che sono scomparsi nella notte dei generali, sono rare le manifestazioni di massa. Però le madri tutti i giovedì si ritrovano ancora in Plaza de Mayo.  Fino a quando? Ogni volta che azzardo questa domanda la risposta è sempre la stessa.  “Fino a quando ci sarà una sola madre, quella marcerà”.
 Marcerà, marceranno: e la domanda sarà sempre la stessa. Semplice e drammatica. “Adonde estan?”. Dove sono? Dove sono i loro figli? Loro continueranno a ripetere questa domanda, senza mai rassegnarsi.
E io aggiungerò la mia voce alla loro.
Non sono pazze, queste donne. Ancora oggi rappresentano la coscienza critica di questo paese. La memoria viva di questo paese, dopo esserne state l’unica voce che raccoglieva e denunciava l’orrore di ciò che accadeva.
Non potevano stare in silenzio e non potevano stare ferme. Quando fu loro proibito di rimanere davanti alla Casa Rosada, sede del governo, cominciarono a camminare in cerchio. Una fila infinita, senza soluzione di continuità.
In questo modo hanno conquistato il rispetto e l'ammirazione del mondo intero. I militari non sono riuscite a ridurle al silenzio.
Più volte caricate dalla polizia, picchiate e arrestate, tre di loro hanno seguito la sorte dei loro figli. Scrive Daniela Padoan in un bellissimo libro a loro dedicato:
Non hanno scelto ciò che si è abbattuto su di loro, ma ne hanno assunto la responsabilità, trasformandola in scelta etica, in un non poter essere altrimenti.
E oggi, l'ho visto con i miei occhi: ogni volta che arrivano in piazza la gente applaude, il popolo le abbraccia e le dà il benvenuto.
La piazza è diventata la loro piazza. Se oggi è possibile pensare al riscatto etico del paese è grazie alla loro costanza, alla loro tenacia.

Madri e donne. Se i militari non avessero fato l’errore di sottovalutare le donne argentine, molte cose non si sarebbero sapute e quella sarebbe stata un’altra tranquilla macelleria del Novecento.
Un altro errore fu non restituire i cadaveri. All’inizio parve una mossa sensata. In realtà credo che proprio il fatto di non dare un corpo e una tomba su cui piangere, su cui elaborare il lutto, abbia contribuito non poco a scatenare questa ribellione unica al mondo. Reazione che, di fatto, ha determinato anche la fine della dittatura e la sua sconfitta.
Grandi invece sono le responsabilità degli italiani che ricoprivano cariche e posti autorevoli. Politici, diplomatici, gerarchie cattoliche non solo non hanno fatto nulla per impedire quella che è stata la strage più grande di italiani dopo la seconda guerra mondiale.
Poi con una vergognosa decisione politica si è chiusa la questione. E invece sarebbe molto importante continuare i processi e riaprirne di nuovi se necessario, anche in Italia.

lunedì 11 ottobre 2010

Piccoli emigranti crescono

Cominciamo da una nota lieta: alcuni giorni fa, accompagnando mio nipote a scuola, ho osservato che ormai anche nella mia città abbiamo una grande integrazione nelle classi scolastiche. Sono aumentati gli studenti che provengono da altre realtà e di altre etnie. E’ per me una gioia vedere questa realtà che ormai prefigura una società multietnica. Che poi è un futuro che, volenti o nolenti, ci aspetta comunque: sta a noi farsi trovare pronti, cioè far sì che quel futuro si declini nel migliore dei modi. Che sia cioè ricco di opportunità e non di preoccupazioni.
  Poi però la gioia ha lasciato il posto a una nascente amarezza. E ho sentito il bisogno di una riflessione e di una domanda che voglio condividere con voi.
 Ho pensato, insomma, che tutti questi bambini hanno bisogno di molti auguri perché il paese che li aspetta non è accogliente. Ma quei bambini che vengono dai paesi dell’Africa e dell’Asia hanno bisogno di qualche augurio in più ?
Posso provare a rifare la domanda con parole mie e cercare di esagerarla? Esagero.
Che cosa dovrebbe fare un giovane immigrato nato o cresciuto in Italia (ormai sono milioni) di fronte all’ondata generalizzata di pregiudizio e intolleranza che si sta rovesciando su tutti gli immigrati, indistintamente, facendo di ogni erba un fascio?
 Che scelte avrebbe?
Difficilmente, al suo posto, potrei ancora sperare di avere un futuro, una cittadinanza, una nuova patria. Sarei stanco di invocare senza ascolto il diritto a essere, in tutto e per tutto, un cittadino come gli altri. Semmai potrei continuare ad abitare in questa città, contentandomi di avere un lavoro che magari altri non vogliono fare, di mandare i miei figli a scuola (e questo è già molto), ma in una scuola che offre meno opportunità che in passato, di abitare un tetto insicuro.
Ma anche così mi sentirei un ingombro, un intruso a costante rischio di umiliazione. Avverto nella pelle l’obiezione che molti mi faranno: “ma qui non parliamo di immigrati di seconda generazione, parliamo dei clandestini, dei rom, delle prostitute …”
 Può darsi, ma i fatti parlano d’altro. La continua, assordante sovrapposizione fra questione migratoria e ordine  pubblico nelle parole di tanti imprenditori morali e politici dell’insicurezza obbliga i figli dell’immigrazione a convivere con un pensiero comune che legge il migrante come ospite richiesto ma non benvenuto.
Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha detto: “Abbiamo bloccato la tratta dei clandestini”. Attenzione: ogni parola di questa frase è falsa.
Il ministro l’ha pronunciata nel corso della visita di Muammar Gheddafi, per ribadire il successo della politica di contrasto dell’immigrazione clandestina intrapresa dal governo italiano, grazie al pattugliamento congiunto del Mediterraneo da parte di unità militari italiane e libiche. Ma innanzitutto è falso che i flussi di migranti provenienti dal mare si siano arrestati. Sono cambiati i paesi di provenienza (sicuramente arrivano meno africani), sono cambiati i mezzi (ci sono meno “carrette” e più barche a vela) ed è cambiata anche la composizione (più donne e bambini). Ma questo non significa che gli arrivi siano terminati.
E poi c’è quel “clandestini”, che rappresenta l’equivoco più mostruoso di quella dichiarazione. La maggior parte dei migranti che il tanto stimato Gheddafi tiene lontano dalle nostre coste avrebbero diritto a una qualche forma di tutela internazionale (rifugiati, richiedenti asilo, protezione umanitaria). Tutela che la Libia fa tutt’altro che garantire e che noi, peggio che complici, neghiamo.
Nel 2008 gli sbarchi sono stati 36.951, in 30.492 hanno fatto richiesta di protezione internazionale e oltre la metà l’ha ottenuta. Nel 2009, anno di entrata in vigore del trattato di amicizia con la Libia, le richieste di protezione si sono ridotte a 17.603. La conseguenza è semplice e brutale. A venire respinti sono, in primo luogo, i profughi e i fuggiaschi. Dunque non è stata vinta alcuna battaglia contro i clandestini, che continuano ad arrivare da altre frontiere e attraverso altri percorsi. Avrebbe lo stesso effetto se il ministro la dicesse così?
Ma veniamo anche alla buona notizia.
Il 30 settembre scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero dell’Interno 5 agosto 2010 per la presentazione delle domande di contributo presso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Il Fondo finanzierà la realizzazione di progetti di accoglienza proposti dagli enti locali per richiedenti asilo e rifugiati. Trenta milioni sono gli euro stanziati nel fondo di cui oltre 6 destinati ai servizi di accoglienza per categorie vulnerabili di richiedenti e titolari di protezione internazionale (disabili, vittime di tortura, genitori singoli con figli minori, donne in stato di gravidanza, minori non accompagnati).
Il fondo consentirà di migliorare le condizioni di accoglienza e le procedure in termini di servizi e di infrastrutture, di integrare coloro che beneficiano di una forma di protezione internazionale rendendoli il più possibile autonomi, di sostenere il reinserimento di quanti decidono di tornare nel paese d’origine. 
Sembrerebbe proprio una buona notizia, perché rende disponibile una certa quantità di risorse per un’attività - quella dell’accoglienza dei richiedenti asilo - che versa in condizioni a dir poco disastrose. E questo nonostante che i diritti dei rifugiati siano solennemente sanciti in tutti gli ordinamenti nazionali e in tutte le convenzioni sovranazionali.
Questo vale, ancor più per l’Italia dove il numero delle persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato o la protezione internazionale è largamente inferiore a quello di paesi come la Francia e la Germania.
Però ora c’è da sperare che quei fondi siano saggiamente utilizzati.
Nella vostra città qualcuno ci ha fatto un pensierino?



domenica 10 ottobre 2010

lenuvolenonchiedonopermesso: Un uomo contro

lenuvolenonchiedonopermesso: Un uomo contro: "Voglio dedicare anch'io una riflessione a Liu, il dissidente cinese a cui è stato dato il Premio Nobel.Ho scritto queste righe durante il mi..."

Un uomo contro

Voglio dedicare anch'io una riflessione a Liu, il dissidente cinese a cui è stato dato il Premio Nobel.Ho scritto queste righe durante il mio ultimo viaggio in Cina.

 No, non ho mai veramente amato il comunismo cinese.Anche negli anni in cui ero immerso nella passione sessantottina, quando a sinistra in parecchi erano infatuati della Cina e dalla Cina prendevano tutto a scatola chiusa, anche allora non riuscivo a sentirmi vicino a questo grande paese.Certo, la Rivoluzione Culturale mi piaceva come idea, anzi, mi piaceva anche solo per il fatto di chiamarsi così. I nomi cinesi, ancora loro. Come ti fregavano persino certi slogan, che rimbalzavano dalla Cina e sembravano fatti apposta per esprimere quanto mi portavo dentro.«Bombardate il quartier generale», oppure «Cento fiori fioriscano, cento scuole gareggino»: melodia per le orecchie di ragazzi come me. Parole che appartenevano ai nostri sogni di una società, meno opprimente, meno autoritaria, parole che gridavo con forza nei miei primi cortei. Avrei messo le mani sul fuoco, se questo fosse servito a suffragare la verità del pensiero di Mao, quando asseriva che le «contraddizioni in seno al popolo e al Partito», sopravvivono anche alla rivoluzione, perché il processo hegeliano di tesi-antitesi-sintesi non cessa con la presa del potere, perché, più concretamente, il rischio dell’imborghesimento ce lo portiamo sempre con noi. Ed era perlomeno curioso, ovviamente, che  parole del genere, così intrise di un bisogno di libertà, arrivassero proprio da un paese dove libertà non c’era. Tutto era menzogna, niente era vero. O peggio, si rovesciava nel suo contrario, per la gioia dei cultori di Hegel, sempre che ce ne fossero davvero: e di questo ho sempre dubitato. Della Cina com’era effettivamente sapevo ancora poco: filtravano solo poche notizie, poche immagini, sull’orrore della Rivoluzione Culturale. Era facile bollare come propaganda anticomunista  quanto veniva detto in giro sulle epurazioni e sui plotoni di esecuzione, sulla fame patita dalle masse dei contadini e sulla distruzione dei monasteri. Se anche i migliori compagni potevano alla fine diventare nemici del popolo, allora il Partito – il Partito con la P maiuscola – doveva avere occhi per tutto, guardarsi da tutto, intervenire su tutto. Il Grande Fratello non era quello ipertecnologico e futuribile del romanzo di Orwell, ma funzionava lo stesso.Cosa si celava dietro le esortazioni sistematicamente ripetute a fare autocritica? Cosa dietro i periodi di rieducazione?E cosa voleva dire «imparare a fare la rivoluzione facendola»?Non lo sapevo ancora, oppure cercavo di non saperlo. E tutto quello che posso dire a mio discapito, davvero, è che malgrado quegli slogan la rivoluzione cinese non mi ha mai davvero catturato. Parole urlate, ma con la testa altrove. Gusci di idea, con il cuore che già allora puntava in direzioni diverse.In America Latina, in Africa, piuttosto. Però non in quel continente a se stante che era, che è la Cina.  
Viva la rivoluzione, la rivoluzione è morta.Se penso alla Cina di oggi sono queste le parole che mi vengono in mente, altro che i quartieri generali da bombardare, i balzi in avanti da spiccare e le fioriture che esplodono in mille colori.Non sono parole memorabili, è ovvio. Ma in mancanza di qualche ispirata perla di saggezza confuciana o taoista, è quanto passa il convento. Tanto più che rende l’idea.   Questi giorni di Pechino, sotto una cappa di caldo e di smog, questi giorni che si trascinano tra una noia che monta e un’insofferenza che cerco di tenere a bada, mi inducono almeno a pensieri fantastici. Altre parole mi attraversano e lasciano un lampo di nostalgia, l’eco di una lettura adolescenziale, a volte la sensazione di un profumo o di una musica. Le ricchezze del Catai, la favolosa corte del Kubilai Khan, e poi Cambaluc così come Marco Polo chiamava Pechino. E altro che Cina socialista: vorrei saltare con un solo balzo, un solo balzo indietro e non avanti, i tempi di Mao e dei piani quinquennali, tornare indietro, lasciarmi alle spalle anche la Cina della guerra dell’oppio e dei soprusi delle potenze coloniali, arrivare ai tempi in cui la Cina era ancora uno scrigno da aprire, un tesoro da disseppellire. La Cina di Marco Polo, ancora vergine agli occhi dei viaggiatori cristiani, terra incognita per missionari e soldati e affaristi. Un mondo di ineffabili sapienze e di città proibite, di risaie e silenzi. Un passato millenario che in pochi decenni è stato liquidato senza un’esitazione, senza un rimpianto. Prima ci ha pensato il comunismo, nella sua smania di sradicare vecchie abitudini e convinzioni ancestrali. Poi ha provveduto il capitalismo più selvaggio, ancorché tuttora ammantato delle bandiere rosse: senza pretese ideologiche, ma con foga ugualmente micidiale. In questo viaggio, Paolo, ho incontrato un paese sovraeccitato che sta affondando nella sua stessa crescita.Cosa resta qui del comunismo? La salma mummificata del Grande Timoniere nella sua bara di cristallo? Gli echi lontanissimi della Lunga Marcia? I foglietti ingialliti del Libretto Rosso? È semplice e non trovo altre parole per dirlo: resta un paese senza valori fondanti che pensa a fare affari senza preoccuparsi dei più elementari diritti umani.Non più le grigie e abbottonate tuniche di Ciu En Lai e Lin Piao, ma le facce tirate dei nuovi mandarini del partito e dello stato. Gli eredi di Deng Xiaoping: espressioni sempre sorridenti, grisaglie scure con camicie firmate e cravatte di seta.Non c’è più posto oggi per i pionieri del socialismo. Oggi servono manager efficienti e spietati, in grado di mandare avanti i giganteschi conglomerati di Stati e lanciare la Cina nei mercati della globalizzazione. Gente che sa decifrare le traiettorie dell’economia, leggerne tentennamenti e accelerazioni, tenere i conti sulle aperture e le chiusure delle borse di New York, Londra e Francoforte. Tutti hanno bussato alla porta di questi nuovi mandarini. Si sono affrettati per siglare accordi bilaterali, hanno sgomitato per partecipare al taglio della torta. Il commercio, prima di tutto. Qualcuno tra loro ha forse chiesto impegni su libertà e democrazia?Scene da capitalismo reale.

giovedì 7 ottobre 2010

L’albergo delle donne tristi




Non sono, anche se lo vorrei essere tanto, un viaggiatore letterario,come amano definirsi Bruce Chatwin e Paul Theroux negli appunti di Ritorno in Patagonia. Però so accettare anch’io l’invito a fare mio un luogo raccontato da un libro che ho amato e amo.
Cosi avviene in questo mio viaggio, con i racconti e i romanzi di Melville, di Sepulveda, di Coloane, o con le poesie di Neruda.
Il romanzo di Marcela Serrano L’albergo delle donne tristi è un amore recente ma essenziale, anzi imprescindibile, come ho compreso al mio arrivo nell’isola di Chiloè.
            “L amore è diventato un oggetto sfuggente “. Questo è l’ultimo pensiero di Floreana , protagonista del romanzo di Marcela, davanti alla scritta “benvenuti a Chiloè”.
  Lo sgangherato pulmann entra in paese e Floreana guarda fuori dal finestrino, incantata dalla brillantezza dell’azzurro: si era completamente dimenticata del cielo. Scende e sgranchisce le gambe. Sente addosso tutto il peso del viaggio, sommato al rollio del traghetto che collega Puerto Montt all’isola e all’infinità di stradine sterrate percorse dalla corriera per raggiungere il paese in cui si trova l’albergo.
             Si scopre riconoscente nei confronti della brezza che le soffia via la stanchezza dal viso e pensa a quanto le piacerebbe sentirsi sempre cosi: “Poter essere leggera”.
             Sono anch’io sceso dal traghetto con Floriana. Ho cercato l’insolito albergo, l’albergo delle donne tristi, e credo di averlo trovato. Almeno, mi piace pensarlo.
              E’ una casa di legno pitturata di giallo e aggrappata a un piccolo pendio che si affaccia assolata sull’oceano. Sono andato a sedermi in un muretto li accanto e ho pensato che se Marcela ha scelto questo posto per raccontare storie di donne comuni che condividono la tristezza e le cicatrici del disamore deve esserci una ragione. Però rimane solo sua.
               Gli uomini, nell’albergo delle donne tristi, sono senza possibilità di riscatto. Nella maggior parte dei casi vengono descritti come il peggiore dei mali del mondo. Però esiste ancora una possibilità fuori dalle mura dell’albergo e del malessere femminile. Floreana la intravede incontrando un uomo che forse soffre di un dolore simile al suo.
              Il romanzo, ovviamente è dedicato alle donne.
              E donne sono le creature della mitologia dell’isola di Chiloè.  Pincoya è la splendida dea della fertilità e della prosperità che danza seducente e nuda sulle acque dell’oceano. Se al termine della danza volge lo sguardo verso il mare il futuro porterà abbondanza. Se invece, guarda verso la terra saranno guai.
               Poi c’è Caleuche. E’ una nave fantasma piena di streghe che va sopra e sotto l’acqua. Le streghe vanno incontro agli uomini cattivi e, dopo averli resi folli, scompaiono nelle onde