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venerdì 29 giugno 2012

Addio vecchio George


Addio vecchio George

La morte di una tartaruga non dovrebbe far notizia, ma questa volta è diverso. Il vecchio George era una personaggio importante.
L'avevano chiamato Lonesome George, George il solitario, perché era l'ultimo esemplare rimasto della sua sottospecie.
Avevo conosciuto George durante il mio viaggio nelle Galapagos ed eravamo subito diventati amici.
Il vecchio con la corazza è diventato simbolo inconsapevole di una lotta per la sopravvivenza e aveva catalizzato diverse iniziative di tutela di un ecosistema tra più delicati e anche più minacciati al mondo.
Prima dell'arrivo dell'uomo la popolazione di tartarughe giganti delle Galapagos raggiungeva le 250mila unità. Un numero che si era ridotto drasticamente già nel diciottesimo secolo, con la strage perpetrata dagli equipaggi delle baleniere che facevano scalo nell'arcipelago. I marinai avevano scoperto che i poveri animali potevano essere mantenuti vivi a bordo per mesi e mesi, quindi spesso deviavano per fare cambusa alle Galapagos.
In seguito le tartarughe giganti hanno dovuto affrontare una minaccia ancora peggiore: gli animali introdotti con gli insediamenti umani. In assenza di predatori alcuni mammiferi alieni, ad esempio capre e ratti, si sono riprodotti a dismisura; i ratti predavano le tartarughe appena nate, le capre si nutrivano delle stesse specie vegetali dei rettili e quindi erano in competizione per il cibo.
Se si aggiungono la predazione delle uova da parte di cani e di maiali e qualche eruzione vulcanica di tanto in tanto, si spiega facilmente come le tartarughe giganti abbiano seriamente rischiato l'estinzione.
Oggi di lavoro ce n'è ancora tanto, ma grazie alle iniziative di tutela ambientale e ai programmi di riproduzione in cattività e reintroduzione, sostenuti dal governo dell'Ecuador con la comunità scientifica internazionale, dai tremila esemplari nel 1974 si è passati alle circa ventimila tartarughe attualmente presenti in varie isole delle Galapagos.
Purtroppo i ripetuti tentativi di far riprodurre Lonesome George con un paio di femmine di sottospecie diverse sono falliti. Con la scomparsa della tartaruga gigante dell'isola di Pinta le Galapagos ci perdono in variabilità. Fu proprio la presenza di tante variazioni osservate da Charles Darwin all'interno delle popolazioni di uccelli e tartarughe a fornire la prova che le specie non sono fisse ma possono mutare in risposta alle diverse condizioni ambientali.
Quando il mio  gommone attracca sulla lingua di lava dell’isola Isabella lo spettacolo e’ davvero stupefacente. A un tratto l’azzurro intenso dell’oceano avvolge di spuma le scogliere nerissime e rimani con lo sguardo sperduto al di là delle dune bianche . Rimane li, ferma e severa, con il muso verso il sole l’iguana marina su cui rischio di inciampare. E’ strano , una delle cose che attraggono di più quelli che conoscono le Galapagos solo per sentito dire sono le tartarughe giganti che si chiamano appunto “Galapago”. Bisogna venire qui per accorgersi dell’incredibile mondo di creature a noi sconosciute che abitano un pianeta che sembra venire da un altro spazio siderale. Mi rendo conto che chiamarle “creature”, qui dove Darwin ha concepito l’origine della specie, è perlomeno insolito ma assomiglia veramente a un immaginario giardino dell’Eden. Queste creature, ispiratrici di una rivoluzione nel pensiero scientifico, sono le uniche al mondo che si disinteressano dell’uomo e agiscono ignorandolo del tutto. Cominciamo dalle Iguane Marine. Pigre e graziose nella loro mostruosità primordiale si scaldano il ventre immobili nei caldi scogli di lava vulcanica. Fanno raramente il bagno, preferendo le alghe che crescono negli scogli lambiti dalle onde. Nere con i riflessi dell’arcobaleno si distinguono da quelle terrestri per il muso piatto. Si è evoluto cosi per brucare le alghe che poi è il loro unico cibo.
Gli uccelli hanno avuto la sorte migliore nel lungo processo evolutivo. I cosi detti fringuelli di Darwin hanno dato vita a sedici specie prima sconosciute, tutte diverse tra loro per la forma del becco e per i colori vivacissimi. Tutti ci saltellano attorno nella speranza di avere un po’ di acqua dolce.
Che dire poi dei grandi uccelli! Le Fregate, con i maschi che si pavoneggiano mostrando e gonfiando il gozzo rtosso vermiglio o gli Albatros che oscurano il sole quando volano in formazione. Ma il più bello di tutti è lui: l’Azula dalle zampe azzurre. Danza nel corteggiamento alzando una zampa alla volta e regala alla compagna un rametto profumato che porta nel becco. Puoi sederti accanto a loro e contemplarli per ore senza stancarti. Anche una specie di Pinguini è arrivata alle Galapagos. La più piccola del mondo generando un miracolo di questo arcipelago: gli abitanti dell’Antartide che si sono adattati in isole sulla linea dell’equatore. Con loro e con le Otarie possiamo nuotare tranquillamente.


martedì 12 giugno 2012









LE RUSPE CINESI NEL GRANDE MEKONG


Ho disceso il Nam Ou in barca fino al suo incontro con il Mekong e poi fino a Luang Prabang. Lo spettacolo mozza il fiato, soprattutto al tramonto. Il cielo, la foresta e il fiume sfumano in colori morbidi e mutevoli. Il grigio e il marrone strisciano lenta-mente dal fiume per lambire i verdi profili della foresta e distendersi infine nei rosa e rossi delle nuvole.
Le montagne dai contorni arrotondati si colorano di un blu notte. Tutto rimanda a un’atmosfera magica.
Ogni tanto, su entrambe le rive sono adagiati piccoli villaggi con le loro palafitte di bambù e foglie e poche barche tirate a secco. Spesso intorno ai villaggi stazionano gruppi di bufali, fieri e immobili nelle loro corazze di fango.
È proprio lungo il Mekong laotiano che alle volte appaiono le “grandi sfere di fuoco”.
Solo per questo spettacolo meriterebbe risalire il fiume. Per questo spettacolo e per la possibilità di stupirsi ancora, di arrendersi all’evidenza che manda in frantumi persino il buon senso.
Anch’io ho fatto fatica a crederci ma poi ho dovuto arrendermi.
In certi periodi dell’anno sembrano emergere dal fiume delle palle rosa o rossastre che cominciano a fluttuare nelle onde per poi alzarsi fino a diversi metri di altezza e volare via. Avviene verso il tramonto e pare che si accendano di fuoco vivo.
Insomma, uno spettacolo bellissimo e inquietante. Senz’altro più facile da contemplare che da descrivere e soprattutto da spiegare. La fantasia popolare ci ha provato in vari modi.
Non sono pochi quelli che pensano al respiro del sacro naga, lo spirito simile a un drago che popola i corsi dell’Asia orientale. Altri ancora richiamano i soldati laotiani, ubriachi e burloni, che sparano speciali proiettili in aria magari in speciali occasioni di festa.
Io ho semplicemente pensato che fosse il sole rosso della sera che si specchia sull’acqua.
Ma l’ipotesi più realistica è che il fenomeno sia prodotto da bolle di gas metano, imprigionate nel fango del fiume, che si liberano nell’aria a particolari temperature.
È un fatto che sull’altra sponda del Mekong, in Thailandia insomma, in certi momenti si radunano migliaia e migliaia di persone, per gridare al miracolo, nella comune appartenenza al buddismo theravada.
Visto dal Laos non ti verrebbe di gridare al miracolo, ma solo di abbandonarti alla meraviglia.
Mi hanno detto che la Cina, in accordo con gli altri paesi che si affacciano sul Mekong, sta progettando di eliminare alcuni tratti di rapide del fiume e renderlo interamente navigabile.
Non so come andrà veramente a finire, ma di una cosa sono sicuro. Qualunque sia la vera causa delle sfere di fuoco mi sa tanto che finiranno sotto le ruspe e le draghe dei distruttori cinesi.
Devo ricredermi sul Laos, almeno per la parte che riguarda il fiume.
 Forse proprio qui il Mekong dà il meglio di sé.
Corre in tratti che sono incastonati tra foreste rigogliose e incorrotte, si inoltra dentro improvvise discese di acqua spumeggiante, si infrange in enormi massi levigati come uova preistoriche.
Cose strane accadono lungo il fiume, e non si tratta solo delle sfere di fuoco.
La prima volta che mi è capitato di sentire questa storia è stato all’inizio del mio viaggio, sul delta, se non ricordo male. Però non avevo dato molta importanza alle parole di quel contadino vietnamita.
«I problemi del delta cominciano a monte», aveva provato a spiegarmi, contrastando una convinzione ricavata, penso, da qualche lettura, e cioè che i problemi del fiume arrivassero dal mare, da quel nemico del delta che è la salinità.
Ed è vero: le grandi risaie che sostengono l’economia vietnamita sono, ogni anno di più, minacciate dall’acqua salata del mare che prende il posto di quella dolce. Tuttavia è nulla in confronto a quanto si accingono a fare i cinesi. I particolari di questa storia sono agghiaccianti e assumono i contorni di un evento epocale destinato a mutare la vita di milioni di persone.
Esagero? Forse, ma i fatti non hanno bisogno di essere ingigantiti per assumere un valore emblematico.
Quello che hanno in programma di fare i cinesi sul Mekong, con la delicatezza dell’elefante in una cristalleria, è un’impresa destinata a far impallidire i bombardamenti americani nella zona.
Ma andiamo per ordine. Lungo mille dei cinquemila chilometri del Mekong la Cina ha spianato le rapide a colpi di dinamite e cancellato tutte le isole che secoli di correnti e detriti avevano formato nel letto del fiume.
Un impatto poderoso, devastante, senza precedenti, neppure nella foresta amazzonica ai tempi in cui si pensava di costruire un’autostrada che la attraversasse dalle Ande all’Oceano Atlantico.
Eppure siamo solo all’inizio.
L’obiettivo è quello di rendere navigabile il Mekong sul tratto che va dal porto fluviale di Simao nello Yunnan fino all’antica capitale del Laos Luang Prabang.
In questo modo i cinesi pensano di far transitare le grandi navi che trasportano i prodotti nei mercati del Sudest asiatico, mercati che sono aumentati moltissimo nello spazio di pochi anni, tanto che aerei e autotreni non bastano più a trasportare i prodotti cinesi.
La dinamite e gli sbancamenti sono solo una parte delle ferite che si stanno procurando al Mekong.
I progetti più preoccupanti, per i prevedibili effetti sugli habitat dell’intero Mekong ma anche sulla vita di milioni e milioni di persone, sono quelli relativi alle grandi opere idrauliche.
Dighe ovunque, insomma. Oltre cento, se si contano anche quel- le pensate per i fiumi tributari. Non intendono risparmiare nemmeno la straordinaria foresta vergine del Nakai Plateau, qui in Laos.
E lo sfregio più grande di tutti lo dovrà sopportare proprio il
Laos: un paese che fino a oggi era sfuggito al selvaggio sviluppo che ha interessato la maggior parte dei paesi vicini, preservato così da decenni di isolamento.
I governanti dei paesi bagnati dal Mekong plaudono a quest’ope-ra imponente, parlano di modernizzazione e di investimenti infra- strutturali, si fregano le mani pregustando i finanziamenti della Banca Mondiale. Ma per le popolazioni locali l’impatto è già un dis- astro. E altre sofferenze sono scaturite dalle proteste più che sacrosante: le dimostrazioni dei contadini e della gente del fiume sono state duramente represse. In alcune zone della Birmania in cui si stanno costruendo otto nuove dighe si parla addirittura di deporta- zioni forzate. Pechino non ha perso tempo: ha già provveduto all’evacuazione di migliaia di persone nella regione dello Yunnan per far posto ai bacini artificiali. E non sono in ballo solo i diritti umani delle popolazioni interessate. I prevedibili contraccolpi ambientali non sono meno inquietanti.
L’acqua nella regione del delta comincerà a ritirarsi, le foreste di mangrovie a seccarsi, i pesci a scomparire. Già ora è sempre più raro il grande pesce gatto del Mekong, il più grande pesce di acqua dolce del mondo.
Quando ascolto o leggo queste cose è come se una mano invisi- bile mi stringesse il cuore e lo scuotesse a lungo. Non so più se prevalga lo scoramento o lo sdegno, so solo che non finisco mai di stupirmi delle capacità distruttive dell’uomo.
Come se non avessi già visto abbastanza, nella mia vita.