BERLINO.
IL MURO DENTRO DI ME
Quando fui a Berlino la prima volta, quarant’anni fa, alcuni anni dopo la costruzione del muro, la cosa che ricordo meglio è la stazione di Friedrich Strasse.
Entrai nella Repubblica Democratica Tedesca da questo posto di frontiera dove a pochi passi i potenti riflettori illuminavano le torrette con le guardiole dei “vopos,” come venivano chiamati i guardiani del muro. Mi colpirono subito le caratteristiche della costruzione.
Il muro, in quel punto, non era una semplice recinzione di cemento armato ma una struttura complessa attraversata da diverse sezioni, ognuna di esse funzionale a scongiurare e reprimere tentativi di fuga. I muri in realtà erano due e tra l’uno e l’altro si metteva in campo una serie di espedienti repressivi ingegnosi e complementari tra di loro.
Il muro di cemento armato, che guardava ad Ovest, era di un colore molto chiaro per mostrare meglio il profilo dei fuggiaschi ed era sormontato da un tubo di cemento per impedire di arrampicarsi. Venivano poi vari fossati e fili spinati con allarmi ottici e sonori.
Una pista era destinata allo scorrimento dei guardiani e una a quello dei cani da guardia, con un lungo guinzaglio che scorre su appositi binari
L’ultima striscia, prima del muro della parte ad est, era una sorta di campo con punte di acciaio conficcate nel terreno, i berlinesi chiamavano questo spazio con un nome bizzarro: “erba di Stalin.”
La frontiera fa sempre un certo effetto. La frontiera è tante cose insieme : paura e inquietudine, ti divide a metà, chiude una porta e ne apre un’altra. Cosi ricordo quella frontiera che divideva il cielo di Berlino. Un tavolo di una stanza grigia, con uniformi grigie sotto uno striscione rosso che ti dava il benvenuto.
Per il resto ho un ricordo meno nitido.
Forse eravamo nell’agosto del 1966. In Italia stava muovendo i primi e incerti passi il movimento studentesco.
In quel periodo ero alle prese con il mio nuovo incarico di segretario provinciale dei giovani comunisti.
Fu proprio grazie a quell’incarico che mi arrivò il viaggio premio con il soggiorno di quindici giorni in una località del Baltico.
Ma il punto della mia riflessione non può essere questo.
Ci vuole più coraggio, è inutile girarci attorno e descrivere da osservatore neutrale un fatto storico che si piazzava come un macigno nella strada della mia formazione politica.
Ripensando a quella sera in treno nella stazione di Berlino vorrei ritrovare il mio stato d’animo di allora. Cosa provavo?
Provai un senso di sgomento? Mi chiesi se tutto ciò era giusto?
Insomma, quali domande mi sono fatto e soprattutto quali risposte mi sono dato?
Quello che è certo non iniziai allora un viaggio critico nella mia coscienza.
Oh, no, io credevo ancora in quei paesi.
In quei tempi ero ancora cieco e giustificavo tutto quello che vedevo e quello che non volevo vedere.
Provavo a seguire un ragionamento nella mia testa che ,più o meno, si svolgeva cosi : la fine della seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazismo, aveva lasciato il posto alla guerra fredda. Il tentativo di isolare l’Unione Sovietica passava dalla destabilizzazione dei paesi socialisti e dal tentativo di stroncare le economie delle giovani democrazie popolari dell’Europa dell’Est.
Ho sempre avuto il sospetto che questa mia resistenza alla verità fosse anche suggerita dalla mia condizione di giovane e promettente dirigente comunista. Ma questo è quello che mi fa stare peggio.
Il muro era anche dentro di me e anche io avevo diviso il cuore dalla ragione.
IL MURO DENTRO DI ME
Quando fui a Berlino la prima volta, quarant’anni fa, alcuni anni dopo la costruzione del muro, la cosa che ricordo meglio è la stazione di Friedrich Strasse.
Entrai nella Repubblica Democratica Tedesca da questo posto di frontiera dove a pochi passi i potenti riflettori illuminavano le torrette con le guardiole dei “vopos,” come venivano chiamati i guardiani del muro. Mi colpirono subito le caratteristiche della costruzione.
Il muro, in quel punto, non era una semplice recinzione di cemento armato ma una struttura complessa attraversata da diverse sezioni, ognuna di esse funzionale a scongiurare e reprimere tentativi di fuga. I muri in realtà erano due e tra l’uno e l’altro si metteva in campo una serie di espedienti repressivi ingegnosi e complementari tra di loro.
Il muro di cemento armato, che guardava ad Ovest, era di un colore molto chiaro per mostrare meglio il profilo dei fuggiaschi ed era sormontato da un tubo di cemento per impedire di arrampicarsi. Venivano poi vari fossati e fili spinati con allarmi ottici e sonori.
Una pista era destinata allo scorrimento dei guardiani e una a quello dei cani da guardia, con un lungo guinzaglio che scorre su appositi binari
L’ultima striscia, prima del muro della parte ad est, era una sorta di campo con punte di acciaio conficcate nel terreno, i berlinesi chiamavano questo spazio con un nome bizzarro: “erba di Stalin.”
La frontiera fa sempre un certo effetto. La frontiera è tante cose insieme : paura e inquietudine, ti divide a metà, chiude una porta e ne apre un’altra. Cosi ricordo quella frontiera che divideva il cielo di Berlino. Un tavolo di una stanza grigia, con uniformi grigie sotto uno striscione rosso che ti dava il benvenuto.
Per il resto ho un ricordo meno nitido.
Forse eravamo nell’agosto del 1966. In Italia stava muovendo i primi e incerti passi il movimento studentesco.
In quel periodo ero alle prese con il mio nuovo incarico di segretario provinciale dei giovani comunisti.
Fu proprio grazie a quell’incarico che mi arrivò il viaggio premio con il soggiorno di quindici giorni in una località del Baltico.
Ma il punto della mia riflessione non può essere questo.
Ci vuole più coraggio, è inutile girarci attorno e descrivere da osservatore neutrale un fatto storico che si piazzava come un macigno nella strada della mia formazione politica.
Ripensando a quella sera in treno nella stazione di Berlino vorrei ritrovare il mio stato d’animo di allora. Cosa provavo?
Provai un senso di sgomento? Mi chiesi se tutto ciò era giusto?
Insomma, quali domande mi sono fatto e soprattutto quali risposte mi sono dato?
Quello che è certo non iniziai allora un viaggio critico nella mia coscienza.
Oh, no, io credevo ancora in quei paesi.
In quei tempi ero ancora cieco e giustificavo tutto quello che vedevo e quello che non volevo vedere.
Provavo a seguire un ragionamento nella mia testa che ,più o meno, si svolgeva cosi : la fine della seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazismo, aveva lasciato il posto alla guerra fredda. Il tentativo di isolare l’Unione Sovietica passava dalla destabilizzazione dei paesi socialisti e dal tentativo di stroncare le economie delle giovani democrazie popolari dell’Europa dell’Est.
Ho sempre avuto il sospetto che questa mia resistenza alla verità fosse anche suggerita dalla mia condizione di giovane e promettente dirigente comunista. Ma questo è quello che mi fa stare peggio.
Il muro era anche dentro di me e anche io avevo diviso il cuore dalla ragione.
Salve! Forse le interesserà sapere che sto per pubblicare un romanzo intitolato (se l'editore accetterà la proposta) Oltre il Muro un Girasole. Protagonista è un giovane giornalista iscritto al PCI che nel 1982 si reca a Berlino Est. Se lo leggerà ritroverà molte cose della Berlino prima della caduta del Muro.
RispondiEliminaCordialmente
Antonio Umberto Riccò