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martedì 20 dicembre 2011

Coloane al tempo di Don Patagonia


Chissà perché Francisco Coloane è approdato in questa parte ultima del mondo per depositare le sue tristi storie. Sicuramente è stato spinto quaggiù dalle tempeste della vita.  E’ morto da pochi anni,  alla bella età di novant’anni passati. Le sue ceneri sono sparse nel mare e nella terra indurita dal ghiaccio. Anzi, si racconta che nel momento in cui era gettato in mare un colpo di vento antartico, robusto e traditore, le riportò addosso alle persone che partecipavano al funerale del grande scrittore. E le ceneri si depositarono cosi sulle lacrime di amici e ammiratori.
 Non ho conosciuto Francisco Coloane. So che è venuto in Italia e chi l’ha visto da vicino o ha potuto parlargli assicura che assomigliava, anche fisicamente, ai personaggi dei suoi libri.
Così ce lo racconta Nicola Bottiglieri in uno dei suoi bellissimi scritti sull’esplorazione e sugli esploratori di quella parte di mondo: “Quando incontrai di persona lo scrittore cileno Francisco Coloane nell’agosto del 1999 a Roma, in un albergo vicino al Pantheon, aveva ottantanove e mi diede subito l’impressione che fosse un personaggio dei suoi stessi racconti. Il corpo ancora vigoroso, occhi celesti, un’aria gentile, parlava della sua vita con distacco, come se stesse leggendo le avventure di un racconto scritto da altri. Il segreto di quella conversazione sospesa fra reale e immaginario consisteva nel fatto che egli era stato davvero marinaio e palombaro nello stretto di Magellano, mandriano nella Terra del Fuoco, oltre a essere stato membro della prima spedizione cilena in Antartide, navigando per tre mesi nel mare di Bellinghausen, pertanto riferiva cose straordinarie come se fossero aneddoti banali”.  
Paco, così lo chiamavano gli amici, era uno scrittore che fuggiva alla fama e alla ricchezza. Ho l’impressione che in tutti quegli anni si sia nascosto ai suoi lettori. Come autore tradotto e conosciuto era arrivato tardi, molto tardi in Italia. Non prima della fine degli anni Ottanta. Noi, giovani post sessantottini leggevamo Garcia Marquez e ci lanciavano con entusiasmo nelle avventure del colonnello Buendia e nella fantastica Macondo di Cent’anni di Solitudine.
Anche Neruda, la sua dolce poesia dell’incanto e della tragedia cilena, ci accompagnava alla conoscenza dell’America del sud, per non parlare della Bolivia di Manuel Scorza e del suo Garabondo l’invisibile. Ma Coloane non lo conoscevo.
A parlarcene per primo fu il suo allievo Sepùlveda nella collana che dirigeva in Italia, La frontiera scomparsa. Solo allora conoscemmo il Caronte dei mari ghiacciati. L’umanità coraggiosa che popolava la Terra del Fuoco e i fiordi patagonici. Le storie dei guardiani dei fari alla fine del mondo e i racconti dei balenieri. I cercatori d’oro e gli allevatori, i marinai delle navi naufragate e quelli con l’orecchino d’oro, segno che erano sopravvissuti a Capo Horn e allo scontro dei due grandi oceani.
 E poi, quel Pasquale Rinaldi, napoletano di Castellammare di Stabbia, pirata capace di navigare nello stretto senza radar e alla presenza della nebbia per quasi l’intero anno. 
Anche queste parole sono di Bottiglieri: “Se dietro Melville vi è lo spietato spirito protestante che vede il male come una forza enorme e oscura che angoscia il cuore dell'uomo, con Jack London e la sua lotta per la sopravvivenza vi è il rutilante mondo dei pionieri che rappresentano l'avanguardia dell'impero americano, e Conrad vede nella lotta fra l'uomo e la natura, ma soprattutto in quella natura immortale che è l'oceano, la riproposizione dell'eterno duello fra l'uomo e il male, nell'epica del lavoro di Coloane non vi sono né l'imperialismo inglese, né il dinamismo della nascente nazione americana, né il conflitto fra bene e male, bensì le attività di uomini marginali, che lavorano ai confini del mondo, in paesi molto poveri. In quest'epica dei confini – e questo lo differenzia dagli scrittori di lingua inglese – risuona tuttavia l'eco di una passata grandezza: la conquista della Patagonia, i tentativi di popolare lo stretto di Magellano, la Terra del Fuoco. Insomma i racconti di Coloane mettono in luce una sorprendente realtà latinoamericana, che affonda le radici nel passato coloniale, sconosciuta da tutti e forse proprio per questo molto attraente. Un incontro che rafforzò la nascente convinzione di Darwin sull' evoluzione delle specie e sul fatto che alcuni gruppi di uomini si erano evoluti più rapidamente di altri. Descrisse la loro lingua come una serie di rantoli e di colpi di tosse, di suoni inarticolati e di sbuffi. Solo verso la fine del secolo scorso un missionario che aveva vissuto a lungo con gli Yaganes, Thomas Bridges, compilò un dizionario con più di trentamila vocaboli, il cui originale sta al British Museum. Gli Yaganes avevano una lingua molto più ricca ed espressiva delle lingue europee sulla caccia, sulla pesca, sulla natura e su qualsiasi cosa riguardasse da vicino la loro vita. Coloane, che ha fatto a tempo a conoscerne qualcuno, superstite delle grandi mattanze organizzate dai bianchi, dice che si salutavano con una parola olofrastica, dai molteplici significati: "Mamilapatalla", che voleva dire "cosa tu vuoi da me" e nello stesso tempo "cosa voglio io da te". Credevano in un dio chiamato Volapatuc, il "grande assassino", un nome che si adatta perfettamente a Pinochet". Gli Yaganes furono sterminati tra la fine del secolo scorso e l' inizio di questo secolo, come gli Onas, un popolo della Terra del Fuoco alto e veloce, che cacciava il guanaco correndo e credeva in miti poetici: Osec, la balena franca, si era sposata con Xuno, il vento e dalla loro unione era nato il "picaflores", l' uccello mosca. "In Patagonia arrivarono gli emigranti e con loro i merinos, una pecora che ha bisogno di un ettaro l' anno per vivere. Così gli emigranti, per impadronirsi delle terre degli indiani, diventarono invasori e poi sterminatori. Gli allevatori promettevano una sterlina per una coppia di orecchie di Onas. E quando si accorsero che qualche cacciatore tenero di cuore, blando de corazon, tagliava le orecchie senza uccidere, cominciarono a pretendere i cojones, almeno erano sicuri. Gli indiani e le donne, che nel racconto di Coloane non ci sono, compaiono nella sceneggiatura, scritta con Luis Sepulveda. Il film parte dal racconto, ma si ispira a tutto il mondo di Francisco, narrato con tono epico molto scarno, molto duro e incisivo. Un mondo terribile in cui i personaggi sono sempre dei naufraghi, dei sognatori, degli sconfitti, ma anche pieno di tenerezza, di uomini che sono spinti ad avvicinarsi tra loro proprio da una natura ostile.
Ho ritrovato una fotografia di De Agostini trentenne. E’ in un’isola dell’arcipelago fuegino con attorno una famiglia di indigeni Ona. E’ magrissimo, sembra impacciato. Trovo che ha un sorriso imbarazzato, un’aria timida. Vuol dare l’impressione di essere sicuro di se ma non ci riesce, è goffo. È impaziente che la foto venga scattata. Trasandato, nella sua tonaca lisa da curato e gli scarponi da montanaro, l’immancabile basco nero. Ma è il modo in cui hanno vestito gli indios e il loro sguardo che trasmette una tristezza profonda e non solo a noi ma anche al giovane prete. E’ la fotografia che si avvicina di più al sentimento di Alberto dove si avverte i segni premonitori della tragedia che porterà alla loro scomparsa.


sabato 22 ottobre 2011

Don Patagonia


Qualche appunto su “Il Cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia”
Sauro Sorini



Ballano tenendosi  per mano, i compagni di viaggio evocati da Tito Barbini nel suo ultimo libro “Il cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia”.
Danzano in cerchio sotto la volta del cielo - come nella “Danza” di H.Matisse (1910) -  Francisco Coloane, Bruce Chatwin, Louis Sepulveda, Antoine de Saint-Exupery, i narratori celebri e appassionati che l’autore ha radunato idealmente vicino a sé per trasformare il viaggio sulle tracce di Alberto Maria De Agostini in Patagonia e nella Terra del Fuoco in un intreccio di biografie, di storie minacciate dall’oblio del tempo, di testimonianze  civili.
L’eco delle loro parole, e quello delle pagine pressoché sconosciute del prete salesiano, accompagnano Barbini lungo il cammino nelle terre estreme del Sudamerica. E la loro vicinanza è tanto autentica, in questo peregrinare struggente e talora  gravido di malinconia, che le parole si scambiano, i racconti si inseguono e si toccano, le voci si sovrappongono; e gli occhi sono gli stessi occhi che vedono le stesse immagini, solo distinte dallo scarto di tempo che giustifica ogni spaesamento dell’anima.
Ma non si coglie a fondo il valore del libro -  certo non un racconto biografico in senso stretto - se non si presta attenzione alle “ombre” del titolo che popolano il viaggio.  Sono le ombre lunghe che  si riverberano sulle coscienze civili annebbiate dall’arroganza del potere nelle sue varie forme (il regime, la chiesa assoggettata ai militari, gli invasori nel nome del progresso civile): sono le ombre dei nativi, gli indios Alakalue, Yamana, Ona, depredati e uccisi in massa; sono le ombre dei figli della madri di Plaza de Mayo, che ancora oggi ci rivolgono la loro straziante domanda (“Donde estan?”);  sono le ombre degli emigranti del ‘900, di cui non si trova traccia neppure nei libri di storia. E sono anche le ombre di figure inedite e singolari come quella di Severino Di Giovanni, anarchico idealista di origini marchigiane,  fucilato negli anni ’30 per ordine del presidente argentino.
Attraverso la ricostruzione dell’ attività e della personalità di Alberto Maria De Agostini, esploratore, fotografo e antropologo, salesiano scomodo (accusò esplicitamente il governatore Senoret delle persecuzioni degli indios), scrittore capace di restituire la mirabile essenza di luoghi incontaminati, Tito Barbini rinnova un legame profondo con le terre ai confini del mondo che hanno mutato negli anni il senso delle sua stessa esistenza; al punto che questa ultima fatica letteraria, per densità narrativa e  partecipazione emotiva,  sembra contenere e racchiudere i precedenti viaggi, i taccuini già scritti, le esplorazioni intime già svolte: ma con una maggiore acquiescenza nei confronti delle inquietudini proprie dell’autore, che qui pare pervaso da quella forma di serenità d’animo che - come  suggerì Borges -  trova, nella  sospensione tra la gioia e la pena, la sua rara intensità.
La consapevolezza  amara e non taciuta, che i paesaggi  incontaminati di padre De Agostini non esistono più  (“Scorgo i profili ormai stanchi della sua cordigliera. Sembra che abbiano deciso di non difendersi più dall’attacco dei nuovi tempi. (…) Nel porto sono ancorate le gloriose rompighiaccio dell’ex marina sovietica e una luccicante nave da crociera alta come un palazzo di dieci piani. Le nuove frontiere del turismo antartico o quasi. Una fila di turisti aspetta il turno per fotografarsi vicino al grande cartello che, al molo, avverte che sono arrivati alla fine del mondo”) sembra allontanare Barbini dalle insidie di costruire, sui luoghi dell’anima che gli hanno alimentato una scrittura fervida e mai scontata, una “mitologia  dell’altrove”, ad uso e consumo della fuga alla ricerca di sé stessi.
Dopo aver utilizzato le forme letterarie dell’autobiografia morale e del taccuino di viaggio, la narrazione di Tito Barbini lascia invece intravedere sviluppi coerenti verso modalità espressive in cui il resoconto di viaggio si fonde con il racconto d’invenzione, che a tratti affiora già in questo suo “Il cacciatore di ombre” , anche in una dimensione evocativa e perfino cinematografica (si legga, per esempio, la descrizione dello sbarco a Buenos Aires di De Agostini:  “E’ lui. Un ragazzo alto con un corpo spigoloso, costretto in una tonaca abbottonatissima fino a non poterne più uscire, con un paio di scarpe da montanaro. Munito di due braccia che usa come remi per farsi largo tra la folla della banchina”).
I lettori che lo apprezzano da tempo sanno che comunque si manterrà costante in Barbini il tratto più solido della sua dimensione narrativa:  una visione compassionevole del mondo e delle vicende degli uomini che non è mai asettica, ma muove con risolutezza dalla difesa dei diseredati e degli oppressi.  Ed è in tal senso che si può affermare che ciò che anima, nel profondo, il viaggiatore e lo scrittore insieme, è l’impegno e la passione civile della sua intera esistenza.  

domenica 9 ottobre 2011

Una nuova avventura


   Verso Casa

Ho imparato da tempo che ogni libro è come un viaggio per chi lo scrive.  Una cartina con cui orientarsi nella geografia della propria anima. Ho anche imparato che la scrittura è un arnese per scavare tra le cose che ci teniamo dentro, nascoste dietro la scorza dell’introversione e della timidezza.
Ogni libro che ho scritto segna un passo avanti come a  scandire l’incedere di un moto interiore.  
E cosi, dopo l’uscita del “Cacciatore di Ombre”, mi sono messo al lavoro per una nuova avventura.  Un nuovo viaggio, questa volta verso casa.
Eravamo noi, i bambini usciti dalla guerra, in una piccola città etrusca. Le mura la cingevano tutta, un ammasso di pietre arenarie disposte in forme severe e imponenti prima dagli etruschi e poi dai romani, e si faceva presto, almeno da casa mia, a raggiungere la campagna con le sue terrazze di viti e olivi e i greppi con il finocchio selvatico.
La sera, quando mi coricavo, sentivo abbaiare i cani e la mattina d’estate le cicale frinivano incessantemente dai castagni del grande spiazzo che chiamavano mercato.  Le strade fuori dalle mura ancora si perdevano in sentieri sterrati contornati da alberi che, nelle loro stagioni, si caricavano di frutti. Era un buon posto per viverci, dove tutti si conoscevano e dove tutti si salutavano.
Da bambino non pensavo che il mondo fuori da quelle mura fosse accogliente, anzi pensavo che con la crescita si spalancassero gli abissi e che la specie umana avrebbe deciso di trascendere se stessa e mutarsi in qualcos’altro. E’ stata la fantasia del viaggio a ricondurmi sulla buona strada.  Ancora oggi mi rasserena pensare che le cose avrebbero preso un’altra piega se fossi rimasto prigioniero di quelle mura.
Alla fine me ne sono andato e, oggi, guardandomi indietro posso dire a me stesso che forse poteva andare peggio. Insomma, alla fine, sono contento di essere diventato cosi.

E allora ho deciso di mettermi sulle mie tracce. L’idea mi piace. Raggiungere i luoghi della mia infanzia, dove sono vissuto ma anche dove sono andato. Insomma, aggirarsi dentro di me.
I narratori di viaggi sono come i marinai di una volta, girano il mondo ma poi, quando viene il momento, tornano a casa. 
Quelle parti del mondo che hanno segnato i miei anni. Certo, quei luoghi sono cambiati e non sono più gli stessi. Oggi sono abitati da un’umanità smemorata, incerta e confusa.  Non ritrovo più la comunità di un tempo. Tutto è cambiato e non in meglio.
Rischio di andare incontro a grandi delusioni, a incontri con conoscenti che non ricordano, poco o nulla interessati alla mia ricerca.  Però, se quegli anni riuscissi a ritrovarli. Ripercorrerli, tenendomi per mano, non lasciarmi fuggire quando vorrei abbandonare l’impresa ma far salire la commozione assieme alla tenacia e alla passione.
Perché lo faccio?
Sono tante le ragioni inconfessabili ma quello che cerco sta in quei luoghi. La mia identità storicizzata in un viaggio che volge alla fine e che torna a riaffacciasi al suo inizio, per quello che può contare nella memoria degli altri.  Serve a me e spero serva ai miei figli e ai miei nipoti.
Restituire gli odori, le facce, i sapori. Non solo. Tenere insieme una serie di anelli che rischiano di spezzarsi.  E poi sento il bisogno di cercare il punto esatto in cui ciò che si è vissuto incontra ciò che si è scritto. Non leggo mai gli oroscopi ma oggi mi è caduto l’occhio su quello dell’’Internazionale e ho letto una specie di ammonimento: “…non tornare mai nel posto a cui appartenevi in passato. Va verso quello a cui apparterrai in futuro…” Una frase senza senso ? Quando mi fermo dopo un viaggio e dico: “Non c’è altro da vedere” so perfettamente che non è vero.
Bisogna ricominciare il viaggio, sempre. Le cose che hai visto la mattina non sono più le stesse della sera  e gli angoli che hai scoperto sono diversi se vengono scorti dalla parte opposta.


giovedì 1 settembre 2011



Tito e Don Patagonia, cacciatori di ombre


(Paolo Ciampi ha dedicato al mio "Cacciatore di Ombre" una bellissima recensione )


C'è una frase che ci arriva dall'antica saggezza greca, per diventare un titolo di Antonio Tabucchi ma anche la chiave di lettura dell'ultimo bellissimo libro del mio amico Tito Barbini (Il cacciatore di ombre, Vallecchi, collana Off the Road)

Inseguendo l'ombra il tempo invecchia in fretta

E questo è davvero un libro in cui si insegue un'ombra per trovare molte ombre, popoli di ombre. Un libro che in questo inseguimento si impasta di tempo, si fa tempo, si preoccupa del tempo. Senza che in questo modo, necessariamente, il tempo debba invecchiare in fretta. Anzi, mi sa che è solo così, facendo in modo che il viaggio non sia solo distanza, ma anche profondità (e quindi tempo), che il tempo si rinnova e torna a farci compagnia.

Ho cominciato, in questo modo. Ma forse avrei dovuto dire subito che Tito questa volta ha spiazzato anche me. Spiazzerà anche voi, se grazie alle sue pagine vi siete fatti portare tra i ghiacciai della Terra del Fuoco o se con lui avete attraversato le distese dell'Antardide o risalito le correnti del Mekong.

Mi ha spiazzato, perché nel momento stesso in cui ci racconta un viaggio autentico -  e si respira la sua stessa aria, si sente la sua stessa fatica  - Tito riesce a sovvertire convenzioni, luoghi comuni, dati di fatto troppo scontati per non diventare prigione.

Insegue un'ombra, Tito, l'ombra di un uomo straordinario, Alberto Maria De Agostini (per inciso, il fratello del De Agostini sulle cui carte abbiamo tutti studiato e sognato), geografo, alpinista, fotografo, esploratore (uno degli ultimi grandi esploratori della nostra storia), missionario controcorrente, testimone del genocidio degli ultimi indios dell'America australe (altre ombre...). Un uomo che in Italia ci siamo troppo facilmente dimenticati, sarà perché pone qualche domanda imbarazzante, sarà che troppo spesso ci fa fatica guardare oltre il risaputo. In Argentina e in Cile, no, De Agostini è Don Patagonia, un mito, un monumento, un chiaro ricordo.

Ma non è questo, ovviamente, a spiazzare. Tito non cerca la biografia, ma il viaggio. E non il viaggio sulle orme di chi è già passato. Il viaggio in compagnia.


Non ho mai provato a definire in modo preciso le ragioni per cui mi sono messo a viaggiare con De Agostini, anche perché mi sembrava che fosse naturale. Succede che quando incontri per la prima volta alcune persone ti sembra di conoscerle da sempre.
Comunque uno dei motivi è di sicuro che con lui potevo andarmene via, puntare altrove

Viaggiano insieme, Tito e Don Alberto. L'ex militante comunista e il missionario cattolico. L'uomo che ci è contemporaneo e l'uomo a cavallo dell'Otto e del Novecento. Il vivo e il morto. I due vivi, anzi. I due cacciatori di ombre.

sabato 20 agosto 2011

Cambogia in Agosto


Ora sono di nuovo in Cambogia.

Sono qui perché la Cambogia è un paese bellissimo.
Perché è un paese che si porta ancora le ferite di uno dei peggiori crimini dei nostri tempi. 
Vorrei ricordarlo, dopo molti anni dal mio primo viaggio.
E perché quel crimine è anch’esso figlio di un tentativo di costruire l’“uomo nuovo”.
Cominciò così, per costruire l’“uomo nuovo”, e si lasciò alle spalle solo mucchi di cadaveri.
Aranyaprathet è l’ultima città della Thailandia, prima del confine. Fino a non troppi anni fa doveva essere solo un modesto avamposto, una manciata di casupole di gente condannata a vivere, o a sopravvivere, con i traffici leciti e illeciti della frontiera. 
Poi dall’altra parte è arrivato Pol Pot e chi ha potuto sottrarsi al suo orrore, alla sua follia, non ci ha pensato due volte. Aranyaprathet è diventato un gigantesco campo di raccolta di rifugiati, uno smisurato ricettacolo di sofferenze e disperazione. 
Oggi quelle che furono verdi e rigogliose risaie sono state cancellate da una sconfinata baraccopoli. Una concentrazione di vite umane che ha del girone dantesco con coreografia asiatica.
Già al primo impatto sei soverchiato da un senso di accumulo, di eccesso: troppi rumori, troppi colori, troppe attività che si addensano e sgomitano negli stessi metri quadri, troppa confusione e troppa concitazione.

E questo, in realtà, può valere per molte delle città dell’estremo oriente. Non mi è nuova questa sensazione di un mondo che intorno si muove vorticosamente e in fretta, come una sorta di microcosmo senza un minimo ordine apparente.

Però qui, ai confini di quello che un tempo fu l’inferno dei Khmer rossi, c’è altro. Tutti sono impegnati allo spasimo per trarre vantaggio da una, chiamiamola così, riconquistata libertà. Sempre che di libertà si tratti: perché questa è più che altro possibilità di vendersi al miglior offerente e, più facilmente, di svendersi a prezzi di liquidazione.

È libertà dagli eccidi di massa e dalle fosse comuni, e certo questo non è poco, ma non libertà dalla miseria più nera e dalla violenza quotidiana che a essa si affianca e che non finirà mai davanti a uno dei tribunali della storia.

Magari qualcosa cambierà, prima o poi. Però a Aranyaprathet stento a intravedere uno straccio di futuro.

Piuttosto mi pare che non ci possa essere termine, a questa spirale di dolore: e io, viaggiatore occidentale, questo dolore posso guardarlo stando alla finestra, oppure anche condividerlo.

Ma riscattarlo, questo proprio no.

Sono entrato in Cambogia in un pomeriggio di caldo spaventosamente appiccicoso, di quelli che solo qui, con l’umidità che mangia le ossa e il sudore che dilaga a chiazze sulla camicia.

Per arrivarci dalla Thailandia bisogna percorrere un lungo ponte, ingombro all’inverosimile di uomini e cose in perenne transito. Molti si trascinano dietro vecchie carrette di legno. E lì dentro, è plausibile, custodiscono tutti i loro beni, il poco che hanno racimolato in un’esistenza di stenti.

C’è anche chi prova a venderti qualcosa, sul ponte.  Soprattutto donne: sopra i loro sarong, consumati dal tempo e dall’uso, hanno steso il poco da cui dipenderà la loro giornata, si tratti di un casco di banane annerite o di qualche ananas ammaccato.

E poi ci sono i bambini, tanti, tantissimi, nugoli di bambini che sul ponte presumibilmente ci vivono, bambini che a ogni passo ti sbucano davanti e ti strattonano da dietro, bambini quasi nudi che ti rincorrono per implorarti un’elemosina o per proporti il loro niente.

Né dalle donne né dai bambini ti aspetteresti quei sorrisi impenetrabili, quegli sguardi che non sono mortificati: ma forse proprio per questo gli uni e gli altri sono altrettanti pugni allo stomaco.

Ho attraversato questo ponte a piedi, senza curarmi delle proposte di sgangherati taxi abusivi. E così, a piedi, ho varcato anche la frontiera.


Dall’altra parte del ponte c’è Poipet, un altro nome sulla cartina che non mi può, non ti può dire nulla.

Qui, non c’è da sorprendersi, ritrovo tutto quello che ho lasciato dall’altra parte. In peggio, se possibile: ed è possibile.

Questa città – esito a definirla in questo modo – ospita ventimila famiglie di diseredati, migrati qui da zone ancora più povere del paese: e da quale orrore più insopportabile di questo siano fuggiti, io non riesco proprio a concepirlo.

 Ora sopravvivono in stamberghe di lamiera e foglie prive di acqua potabile e di fognature. Gli escrementi finiscono in rivoli di melma putrida e nera che scorrono a due passi, dove giocano i bambini o si vendono gli alimenti. I più disperati frugano nell’immondizia, assieme a cani spelacchiati che da soli basterebbero a deprimerti.


Tutto questo è di per se stesso insopportabile, ma lo è ancora di più perché qui, a Poipet, non c’è solo questo. A pochi metri da qui si aprono le porte di casinò che
 forse non saranno lussuosi come a Macao o a Hong Kong, però scintillano in questo mare di fango. Qui turisti e nuovi ricchi del sud-est asiatico possono sperperare a cuor leggero cifre con cui sfameresti tutta Poipet.

Poipet,  è anche la principale base cambogiana del traffico di bambini verso la Thailandia.
Bambini da vendere per adozioni illegali, bambini da usare come mendicanti o da utilizzare come forza lavoro a costi irrisori. Bambini da ridurre in schiavitù o da avviare alla prostituzione.
Per lo meno è educativo: in posti come questi si può davvero toccare con mano che il comunismo è riuscito a produrre effetti esattamente agli antipodi di quelli auspicati e proclamati.
Un mondo senza classi doveva cancellare l’economia di mercato e invece ora il mercato è  padrone di tutto. E tutto si può vendere e comprare.
Ma questa è la Cambogia. E se dici Cambogia, non puoi non tornare continuamente alla mente a quello che è stato, che ha fatto, che ha rappresentato Pol Pot.
Allo stesso modo degli orrori del nazismo, nessuno potrà mai spiegare i tre anni, otto mesi e venti giorni di questa pazzia criminale.
Come è potuto succedere che un popolo così sereno e dolce precipitasse in questo inferno?
Me lo chiedo e chiedo ancora, e non ho risposte.
Però per quanto mi riguarda avverto il bisogno di una espiazione. Perché quello che è accaduto in Cambogia riguarda tutti.
Siamo parte della stessa storia, degli stessi ideali.
Nessuno di coloro che hanno combattuto per una società più libera e giusta poteva immaginarsi Pol Pot.
 Maè nel nostro album di famiglia. E con lui un genocidio nel nome del comunismo.

lunedì 25 luglio 2011

Mia vecchia libreria


Oggi ho avuto una brutta notizia da Buenos Aires. La vecchia libreria del signor Schiffer è stata chiusa. Ecco il mio ricordo. 

Ogni giorno che trascorro a Buenos Aires scopro qualcosa di nuovo. Ero di ritorno dalla tomba di Evita, camminavo lungo il muro del Cimitero della Recoleta, ed ecco, m’imbattei in una libreria antica con dentro un intero mondo, anch’esso antico. E’ stato un altro dei preziosi doni che ho ricevuto da questa città.
 Dietro il bancone, un anziano signore dall'aria distinta consultava alcuni cataloghi buttando di tanto in tanto un occhio a un vecchio computer sulla scrivania. Intorno all'anziano libraio, con gli occhiali e il maglione rosso, antichi mobili di ciliegio custodivano sotto chiave rarissimi e preziosissimi volumi dal valore sicuramente inestimabile.
Regnava il silenzio più assoluto, un silenzio rotto soltanto dal rumore delle pagine sfogliate e dei passi che scricchiolavano sul legno del pavimento.
  L’avevo scoperta per caso e subito mi rammentò un bellissimo film con Anthony Hopkins e Anne Brancroft. Ricordate? Helen è una scrittrice americana che vive a New York, è alla ricerca di alcuni libri rari. Entra in contatto con una libreria specializzata di Londra, al numero 84 di Charing Cross (e questo indirizzo è anche il titolo del film). Inizia una relazione epistolare con il direttore della libreria: continuerà anche se i due non s’incontreranno mai.
Per me questa libreria di Baires è diventata l’equivalente della libreria all’84 di Charing Cross. Anche dopo che sono tornato in Italia ho coltivato l'idea di mettermi in corrispondenza con il vecchio professore di storia in pensione che la gestisce. Un professore speciale, che di nome fa Gustavo Schiffer, per una libreria speciale.
Fantasticavo: mi piaceva l'idea di scrivere, di scriversi e ogni tanto di farmi mandare un bel libro, raro e importante, che non avrei mai trovato in Italia.
Libri scomparsi, libri ricercati, libri che nemmeno sapevo di desiderare.
Ma soprattutto mantenere un contatto con un anziano signore che fa un mestiere bellissimo, un mestiere utile, benché oggi poco considerato, quello del libraio. E mantenere questo contatto malgrado la distanza. E magari farsi raccontare la città quando ti manca. 
Tra noi la scintilla era scoccata subito.
"Davvero lei è uno scrittore viaggiatore?" mi aveva chiesto con malcelato interesse. Per poi aggiungere: "Peccato, non ho più il nostro precedente catalogo che avevamo dedicato a un’importante selezione di viaggiatori. C’erano molti libri in cui si racconta che cosa disse e cosa scrisse chi, nel passato, per un motivo o per l’altro, si avvicinò alle nostre coste e in questo modo influì sulla storia argentina. Invariante storica l’abbiamo chiamata".
 Non capivo bene cosa mi stava dicendo ma gli chiesi  di mandarmi in Italia una lista dei libri di viaggio disponibili nei suoi archivi segreti. Chissà, forse avrei trovato qualcosa di importante. Fermo restando che l’aggettivo importante può voler dire molte cose in questo contesto: per esempio, sono importanti parole che ti schiudono la possibilità di un nuovo viaggio.
 Il vecchio signore con il maglione rosso continuava a incuriosirmi.
Gli chiesi, con un certo timore, se la libreria era aperta ai tempi della dittatura e se lui era lì in quegli anni.  "Certo!" mi rispose con slancio. Quasi a sottolineare che le dittature possono anche passare, ma i libri no, i libri in genere rimangono. Messaggio di grande speranza, questo.
  "La libreria è sempre stata della mia famiglia. Semmai proprio in quel periodo  i generali mi imposero di lasciare la scuola e con la scuola l’insegnamento".
E mi sembrò di avvertire la sua amarezza, sapore della sua vita. E allo stesso tempo compresi il riscatto che aveva cercato.
Le pareti di libri intorno a lui, in un rapporto denso con il passato, gli avevano consentito una sorta di isolamento, un parziale distacco dal mondo dei disastri e delle ingiustizie.
"Vuol sapere cosa penso quando qualcuno entra in libreria e mi chiede un libro appena uscito che magari è in testa alle classifiche? "
Lo guardai con curiosità.
"Penso che la lettura dei libri nuovi impedisca la lettura di quelli vecchi ".
Poi è finita come quasi sempre finisce anche con i migliori compagni di viaggio, con i quali ti sei scambiato pure l'indirizzo. Non gli ho mai scritto dall'Italia.
Ora però sono di nuovo a Buenos Aires e quella libreria mi è tornata in mente.
Questa mattina mi sono svegliato con l’idea di farle visita e di salutare di nuovo il mio libraio. Con questa idea e con la voglia di sfidare la sorte.
Vai a sapere, magari il signor Schiffer avrà qualche libro sul mio salesiano.
Scricchiola ancora il pavimento di legno e annuncia l’arrivo del nuovo cliente. Rimane inconfondibile l’odore dolce della carta stampata e dell’inchiostro. Questo posto è pieno di libri che l’umidità dell’estate argentina invecchia precocemente..
Non è un bene per i libri ma d’altronde non siamo in un museo e i condizionatori costano.

Sono qui, a perdermi tra i palchi e soppalchi della libreria. Decido di acquistare dieci libri ormai fuori commercio da anni. Mi sono costati una piccola fortuna ma ne è valsa la pena.
Ho comprato anche un’edizione rarissima di un racconto di Salgari. Lo regalerò a Paolo in omaggio al suo bellissimo Gli occhi di Salgari, un libro in cui si parla dei viaggi che si possono fare con i libri, sulle ali della fantasia.
Paolo, da buon salgariano, sa che si può arrivare fino alla fine del mondo anche solo con l’immaginazione.
A me a un certo punto non basta più, ho bisogno di mettermi lo zaino in spalla. Però so che questi dieci libri sono altrettanti viaggi. 
Non ho trovato niente sul mio missionario. Però il signor Schiffer si darà da fare e sa già dove cercare. Me l’ha promesso. Se troverà qualcosa mi scriverà.
Già pregusto la gioia di una sua lettera. Un messaggio dalla libreria di un altro continente. Che emozione.
Nemmeno fosse Charing Cross 84.
Mi mette tristezza pensare che il futuro dei libri possa essere affidato solo ai bookshop on line e ai libri digitali da scaricare come le suonerie del cellulare.
Salviamo i librai come il signor Schiffer.






mercoledì 29 giugno 2011

Sacerdote o esploratore? In viaggio con Don Patagonia. Esce tra poche settimane un mio nuovo libro di viaggio: "Il cacciatore di ombre" (Vallecchi, collana off the road.) Ecco una pagina per introdurlo.




Era una primavera australe dell’anno 1910. Una primavera senza il volo degli albatros, benché in quella stagione migrare in Antartide sia normale.
Il ragazzo con la tonaca e il basco nero è immerso nell’aria argentina dello stretto di Magellano solo sul ponte del traghetto, appoggiato al parapetto. La giornata è sempre più scura, fredda. C’è vento sull’acqua. Non ci sono altri rumori oltre a quello del vento, e del barcone, con quel vecchio motore a scoppio. 
Ora Alberto non distingue quasi più i contorni delle montagne. Sono masse nere che incombono sulle acque. Si vedono affiorare dalla riva piccoli accampamenti con colonne di fumo verticali,  che alle volte il mare gonfio nasconde.
"Ecco, fra poco sono a Punta Arenas. Sto andando incontro al mio destino. Come sarà la città alla fine del mondo?  Come sarà il collegio che mi sta aspettando? Come saranno lassù questi monti della Terra del Fuoco e della Patagonia che si scorgono dal parapetto della nave?"
Il giovane sacerdote si ripete queste parole ancora una volta, mentre il suo lungo viaggio dall’Italia arriva davvero alla fine  con questa lenta navigazione nello stretto di Magellano.
Ora è accovacciato a prua, nella parte esposta al vento della piccola nave. Fa freddo ma sente di essere come a casa, nelle sue Alpi. L’aria fredda gli gela le ossa.
Gli altri passeggeri preferiscono stare riparati nella cabina, lui è solo e guarda verso l’oceano. Respirando, a pieni polmoni.  Questa è aria che viene dal Pacifico. È solo, ma la solitudine difende la sua emozione. Non sa cosa lo aspetta.
L’acqua è mossa, plumbea. Quasi non se ne accorge.
La costa ora è vicina. Può cogliere le fisionomie dei primi abitanti di quelle isole. Facce e corpi arcaici venuti dalla notte dei tempi, così confusi e sradicati che il giovane missionario li avverte prigionieri di una profonda tristezza.
Stanno silenziosi, sulla riva, non salutano, guardano. Lo sguardo sembra fissare quell’enorme canoa che porta ancora uomini bianchi sulla loro terra.
Non sa ancora, Alberto, del “tiro al bersaglio”. Non ha respirato il fumo dei villaggi, l’acre odore della carne macellata e lasciata andare a male, mentre i cani abbaiano. 
Sulle navi che solcavano queste acque c'è gente che si diletta a sparare a tutto ciò che si muove negli accampamenti degli indios. 
Siamo nell’anno 1910, esattamente un secolo fa.

La navigazione è sempre più lenta, il motore della nave ha un respiro affannoso, si avvicina a una piccola isola di sassi preistorici interamente ricoperta di leoni marini.
I maschi pesano quattrocento o cinquecento chili vivono in queste acque dalla notte dei tempi ma Alberto li vede per la prima volta. Enormi e fieri, con la criniera sul groppone, ruggiscono come i loro fratelli nella savana. Stanno ammassati a gruppi circondati dai loro harem di venti o trenta femmine. Sopra di loro, nelle rocce più in alto, migliaia di cormorani immobili come statue di marmo.
Lembi di terra ghiacciata, emersa qua e là quasi per caso.  Ora siamo in estate e Alberto pensa a come saranno queste terre in inverno, con gli artigli del gelo antartico piantati su ogni forma di vita.  E tutt’intorno, per sei mesi, buio, freddo e silenzio.
Già: corre l’anno 1910.
Questo giovane prete della congregazione dei missionari salesiani sbarca nella Terra del Fuoco e comincia la sua nuova vita. In questa terra per lo più ancora da scoprire, percorsa dal vento e dal gelo, abitata da sparuti gruppi di indigeni e da una pessima comunità di avventurieri, finiti in culo al mondo per le ragioni più disparate.
La Patagonia è ancora un parola che evoca un mistero.

mercoledì 8 giugno 2011

Cile, finalmente monta la protesta contro le cinque dighe Enel da costruire in Patagonia



In Cile finalmente è esplosa la protesta. 
Dico finalmente perché sono stato uno dei primi a denunciare, cinque anni fa, quello che stava succedendo in questa parte della Patagonia Cilena. Avevo dedicato un capitolo intero nel mio libro "Le nuvole non chiedono permesso" alla protesta dei nativi Mapuche contro questo assurdo progetto voluto dalle multinazionali. Cinque grandi dighe da costruire in Patagonia. A volere il progetto Hidroaysèn è il governo cileno. Con il coinvolgimento dell’italiana Enel e della cilena Colbùn. Ma per il terzo fine settimana consecutivo una grande manifestazione ha attraversato il centro di Santiago del Cile per protestare contro un piano energetico, che secondo gli attivisti, causerà danni irreversibili all’ambiente.
Il progetto è stato approvato dalla commissione di Valutazione ambientale della Regione meridionale e patagonica di Aysèn. Ma la commissione è di nomina governativa centrale, come del resto lo sono ancora i governi regionali in Cile. In termini assoluti il numero di partecipanti alle manifestazioni non sembra impressionante. Sono comunque tanti per un paese dove le manifestazioni di massa come una volta non ci sono più. Oltre ventimila sabato 28 maggio a Santiago, trentamila il fine settimana precedente. Questa volta però non ci sono stati incidenti.
Il movimento contro le mega dighe riceve appoggi dagli studenti – che sono in fermento per il diritto allo studio – e dalla minoranza indigena mapuche – i cui attivisti stanno sostenendo lo sciopero della fame di alcuni detenuti politici. Ma soprattutto l’opposizione al mega progetto Enel-Colbùn si è rafforzata nel mondo politico, ha di fatto conquistato gran parte dello schieramento di centro sinistra, della Concertaciòn sconfitta alle elezioni dell’inizio del 2010. Si è assistito così al paradosso dell’ex presidente Ricardo Lagos che prima dichiara il suo appoggio al progetto e poi due giorni dopo lo smentisce con un ragionamento particolare: “Sarei in linea di principio favorevole alle cinque grandi dighe ma in un contesto di piano energetico rinnovabile e di garanzie ambientali che ora non ci sono”. I più giovani ed emergenti tra i protagonisti della passata esperienza governativa della socialista Michelle Bachelet, come ad esempio Carolina Tohà e Ricardo Lagos Weber, sostengono ora che il passato governo non era favorevole ad Hidroaysèn.
È il segno dell’aria che tira nell’opinione pubblica, dopo che un sondaggio ha dato il 60% degli abitanti della regione di Aysèn contrari alle dighe, e quasi altrettanti a livello nazionale. Gli esponenti del governo di Sebastian Piñera ribattono colpo su colpo, ma sono preoccupati di trovarsi da soli a prendere la decisione finale. Per questo il presidente ha pensato di proporre un progetto di rete pubblica per la distribuzione dell’elettricità, che coinciderebbe in parte con il lunghissimo elettrodotto da costruire per portare l’energia dalla remota Patagonia al centro del paese. La discussione parlamentare di questo progetto consentirebbe di prender tempo, di recuperare consenso e di corresponsabilizzare gran parte della opposizione parlamentare. In questo prender tempo si inseriscono le speranze degli ambientalisti, di poter trovare ancora il modo di fermare il progetto.
A dar loro una mano ci si è messo in prima persona il New York Times. Con un editoriale anonimo, quindi ufficiale, il prestigioso quotidiano newyorkese ha preso posizione. Intitolato “Keep Chilean Patagonia Wild”, mantenete selvaggia la Patagonia, l’editoriale sostiene tra l’altro: “Il Cile ha straordinarie fonti rinnovabili di energia, includendo quelle solari, geotermiche ed eoliche, che potrebbero essere sviluppate con molto meno impatto sull’ambiente. Guardando le cose da un punto di vista strategico, il governo cileno, che appoggia le grandi dighe, potrebbe arrivare a capire quello che molti cileni già sanno. E cioè che sacrificare la Patagonia per ottenere energia potrebbe essere un errore irreparabile”. 


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domenica 22 maggio 2011

Chi ha paura dei referendum?





Più rifletto sul voto di domenica e più cresce in me un senso di gioia e di speranza. Non ho le traveggole, non ho scambiato i sogni con la realtà, per una volta in Italia hanno davvero vinto la lealtà, la competenza, la politica intesa come servizio, l’energia delle nuove generazioni. E davvero hanno perso l’arroganza,  l’insulto, la prepotenza. i candidati di plastica da tv del pomeriggio, la rabbia che acceca modello Santanchè, Sallusti e gli altri servitori del Cavaliere.
E per dirla con tutta franchezza: ha torto chi dice che questo risultato era previsto.
Mi auguro il Pd sappia leggere nel voto una fase nuova della politica italiana. Anche perché questo mi sembra un voto che rimette in circolo molte energie fino a ieri disperse, che riassorbe l’astensione, che premia la sinistra assai più del centro. La cui moderazione, del resto, ha dato punti a quella dei sedicenti moderati.
E adesso al lavoro, perché siamo appena all’inizio. Dopo le città il governo. E si vada finalmente a votare per i referendum. La parola ai cittadini, alzi la mano chi ne ha paura.
E poi Arezzo.
Faccio subito i miei complimenti a Giuseppe Fanfani. Anche se con una percentuale inferiore a quella ottenuta alle scorse elezioni  è riuscito a strappare una bella vittoria, non concedendo chance alla platea clamorosamente divisa e votata al suicidio del centro destra aretino.
Ma siccome guardo al futuro, alle sfide che ci attendono nelle prossime settimane, io prima ancora che di scenari politici voglio parlare di acqua e di referendum.
Fanfani è  una persona intelligente e non avrebbe firmato per il referendum abrogativo dei processi di privatizzazione se non fosse convinto di avviare un processo per riprendersi la gestione dell’acqua.
Intendiamoci, anche io sono un pentito della privatizzazione. L’importante è riconoscerlo e fare un passo avanti.
Oggi per cambiare il referendum è lo strumento più adeguato (per la partecipazione), anche se non il solo per far riappropriare interamente dalla comunità di un bene cosi prezioso.
 Ho parlato in un precedente articolo della grande mobilitazione mondiale per l’acqua. Acqua buona e per tutti nel mondo. Ora è il momento di una riflessione sull’acqua di casa nostra e sul bisogno urgente di farla tornare interamente nelle mani del pubblico.
La Toscana e' la regione dove l'acqua per uso domestico costa di più in Italia, con una spesa media annua di 330 euro, a fronte di una spesa media nazionale pari a 253 euro. Sono toscane ben sette tra le 10 città più care: in assoluto Arezzo, quindi Firenze, Pistoia, Prato, Livorno, Grosseto, Siena.
Sono dati diffusi recentemente da importanti riviste, economiche e non solo. In media, nell'ultimo anno l'incremento tariffario registrato in Toscana e' stato del 5,8%, leggermente superiore a quanto registrato a livello nazionale (5,4%).
Consola almeno il fatto che Arezzo, e meno male, non ha richiesto deroghe. Questo vuol dire che abbiamo un ottima acqua.
Abbiamo avuto anche una buona gestione, ma questo non toglie nulla alla necessità di essere coerenti. Avevo avuto l’impressione che il Pd aretino avesse preso una posizione nuova e coraggiosa affiancandosi ai partiti della sinistra e all’Italia dei Valori nell’iniziativa referendaria.
Poi non ne ho saputo più nulla. Forse hanno fatto marcia indietro?
Quando si ha il coraggio di cambiare occorre farlo fino in fondo, e la gente non capisce più il gioco delle convenienze e degli equilibrismi per non scontentare qualcuno.
Ora servono parole chiare e iniziativa concreta per portare la gente al voto referendario. Serve subito darsi una mossa.  (titobarbini@libero.it)