Qualche appunto su “Il Cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia”
Ballano tenendosi per mano, i compagni di viaggio evocati da Tito Barbini nel suo ultimo libro “Il cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia”.
Danzano in cerchio sotto la volta del cielo - come nella “Danza” di H.Matisse (1910) - Francisco Coloane, Bruce Chatwin, Louis Sepulveda, Antoine de Saint-Exupery, i narratori celebri e appassionati che l’autore ha radunato idealmente vicino a sé per trasformare il viaggio sulle tracce di Alberto Maria De Agostini in Patagonia e nella Terra del Fuoco in un intreccio di biografie, di storie minacciate dall’oblio del tempo, di testimonianze civili.
L’eco delle loro parole, e quello delle pagine pressoché sconosciute del prete salesiano, accompagnano Barbini lungo il cammino nelle terre estreme del Sudamerica. E la loro vicinanza è tanto autentica, in questo peregrinare struggente e talora gravido di malinconia, che le parole si scambiano, i racconti si inseguono e si toccano, le voci si sovrappongono; e gli occhi sono gli stessi occhi che vedono le stesse immagini, solo distinte dallo scarto di tempo che giustifica ogni spaesamento dell’anima.
Ma non si coglie a fondo il valore del libro - certo non un racconto biografico in senso stretto - se non si presta attenzione alle “ombre” del titolo che popolano il viaggio. Sono le ombre lunghe che si riverberano sulle coscienze civili annebbiate dall’arroganza del potere nelle sue varie forme (il regime, la chiesa assoggettata ai militari, gli invasori nel nome del progresso civile): sono le ombre dei nativi, gli indios Alakalue, Yamana, Ona, depredati e uccisi in massa; sono le ombre dei figli della madri di Plaza de Mayo, che ancora oggi ci rivolgono la loro straziante domanda (“Donde estan?”); sono le ombre degli emigranti del ‘900, di cui non si trova traccia neppure nei libri di storia. E sono anche le ombre di figure inedite e singolari come quella di Severino Di Giovanni, anarchico idealista di origini marchigiane, fucilato negli anni ’30 per ordine del presidente argentino.
Attraverso la ricostruzione dell’ attività e della personalità di Alberto Maria De Agostini, esploratore, fotografo e antropologo, salesiano scomodo (accusò esplicitamente il governatore Senoret delle persecuzioni degli indios), scrittore capace di restituire la mirabile essenza di luoghi incontaminati, Tito Barbini rinnova un legame profondo con le terre ai confini del mondo che hanno mutato negli anni il senso delle sua stessa esistenza; al punto che questa ultima fatica letteraria, per densità narrativa e partecipazione emotiva, sembra contenere e racchiudere i precedenti viaggi, i taccuini già scritti, le esplorazioni intime già svolte: ma con una maggiore acquiescenza nei confronti delle inquietudini proprie dell’autore, che qui pare pervaso da quella forma di serenità d’animo che - come suggerì Borges - trova, nella sospensione tra la gioia e la pena, la sua rara intensità.
La consapevolezza amara e non taciuta, che i paesaggi incontaminati di padre De Agostini non esistono più (“Scorgo i profili ormai stanchi della sua cordigliera. Sembra che abbiano deciso di non difendersi più dall’attacco dei nuovi tempi. (…) Nel porto sono ancorate le gloriose rompighiaccio dell’ex marina sovietica e una luccicante nave da crociera alta come un palazzo di dieci piani. Le nuove frontiere del turismo antartico o quasi. Una fila di turisti aspetta il turno per fotografarsi vicino al grande cartello che, al molo, avverte che sono arrivati alla fine del mondo”) sembra allontanare Barbini dalle insidie di costruire, sui luoghi dell’anima che gli hanno alimentato una scrittura fervida e mai scontata, una “mitologia dell’altrove”, ad uso e consumo della fuga alla ricerca di sé stessi.
Dopo aver utilizzato le forme letterarie dell’autobiografia morale e del taccuino di viaggio, la narrazione di Tito Barbini lascia invece intravedere sviluppi coerenti verso modalità espressive in cui il resoconto di viaggio si fonde con il racconto d’invenzione, che a tratti affiora già in questo suo “Il cacciatore di ombre” , anche in una dimensione evocativa e perfino cinematografica (si legga, per esempio, la descrizione dello sbarco a Buenos Aires di De Agostini: “E’ lui. Un ragazzo alto con un corpo spigoloso, costretto in una tonaca abbottonatissima fino a non poterne più uscire, con un paio di scarpe da montanaro. Munito di due braccia che usa come remi per farsi largo tra la folla della banchina”).
I lettori che lo apprezzano da tempo sanno che comunque si manterrà costante in Barbini il tratto più solido della sua dimensione narrativa: una visione compassionevole del mondo e delle vicende degli uomini che non è mai asettica, ma muove con risolutezza dalla difesa dei diseredati e degli oppressi. Ed è in tal senso che si può affermare che ciò che anima, nel profondo, il viaggiatore e lo scrittore insieme, è l’impegno e la passione civile della sua intera esistenza.
La visione compassionevole del mondo è l'unica che ci possa salvare.
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