Ora sono di nuovo in Cambogia.
Sono qui perché la Cambogia è un paese bellissimo.
Perché è un paese che si porta ancora le ferite di uno dei peggiori crimini dei nostri tempi.
Vorrei ricordarlo, dopo molti anni dal mio primo viaggio.
Vorrei ricordarlo, dopo molti anni dal mio primo viaggio.
E perché quel crimine è anch’esso figlio di un tentativo di costruire l’“uomo nuovo”.
Cominciò così, per costruire l’“uomo nuovo”, e si lasciò alle spalle solo mucchi di cadaveri.
Aranyaprathet è l’ultima città della Thailandia, prima del confine. Fino a non troppi anni fa doveva essere solo un modesto avamposto, una manciata di casupole di gente condannata a vivere, o a sopravvivere, con i traffici leciti e illeciti della frontiera.
Poi dall’altra parte è arrivato Pol Pot e chi ha potuto sottrarsi al suo orrore, alla sua follia, non ci ha pensato due volte. Aranyaprathet è diventato un gigantesco campo di raccolta di rifugiati, uno smisurato ricettacolo di sofferenze e disperazione.
Oggi quelle che furono verdi e rigogliose risaie sono state cancellate da una sconfinata baraccopoli. Una concentrazione di vite umane che ha del girone dantesco con coreografia asiatica.
Già al primo impatto sei soverchiato da un senso di accumulo, di eccesso: troppi rumori, troppi colori, troppe attività che si addensano e sgomitano negli stessi metri quadri, troppa confusione e troppa concitazione.
E questo, in realtà, può valere per molte delle città dell’estremo oriente. Non mi è nuova questa sensazione di un mondo che intorno si muove vorticosamente e in fretta, come una sorta di microcosmo senza un minimo ordine apparente.
Però qui, ai confini di quello che un tempo fu l’inferno dei Khmer rossi, c’è altro. Tutti sono impegnati allo spasimo per trarre vantaggio da una, chiamiamola così, riconquistata libertà. Sempre che di libertà si tratti: perché questa è più che altro possibilità di vendersi al miglior offerente e, più facilmente, di svendersi a prezzi di liquidazione.
È libertà dagli eccidi di massa e dalle fosse comuni, e certo questo non è poco, ma non libertà dalla miseria più nera e dalla violenza quotidiana che a essa si affianca e che non finirà mai davanti a uno dei tribunali della storia.
Magari qualcosa cambierà, prima o poi. Però a Aranyaprathet stento a intravedere uno straccio di futuro.
Piuttosto mi pare che non ci possa essere termine, a questa spirale di dolore: e io, viaggiatore occidentale, questo dolore posso guardarlo stando alla finestra, oppure anche condividerlo.
Ma riscattarlo, questo proprio no.
Sono entrato in Cambogia in un pomeriggio di caldo spaventosamente appiccicoso, di quelli che solo qui, con l’umidità che mangia le ossa e il sudore che dilaga a chiazze sulla camicia.
Per arrivarci dalla Thailandia bisogna percorrere un lungo ponte, ingombro all’inverosimile di uomini e cose in perenne transito. Molti si trascinano dietro vecchie carrette di legno. E lì dentro, è plausibile, custodiscono tutti i loro beni, il poco che hanno racimolato in un’esistenza di stenti.
C’è anche chi prova a venderti qualcosa, sul ponte. Soprattutto donne: sopra i loro sarong, consumati dal tempo e dall’uso, hanno steso il poco da cui dipenderà la loro giornata, si tratti di un casco di banane annerite o di qualche ananas ammaccato.
E poi ci sono i bambini, tanti, tantissimi, nugoli di bambini che sul ponte presumibilmente ci vivono, bambini che a ogni passo ti sbucano davanti e ti strattonano da dietro, bambini quasi nudi che ti rincorrono per implorarti un’elemosina o per proporti il loro niente.
Né dalle donne né dai bambini ti aspetteresti quei sorrisi impenetrabili, quegli sguardi che non sono mortificati: ma forse proprio per questo gli uni e gli altri sono altrettanti pugni allo stomaco.
Ho attraversato questo ponte a piedi, senza curarmi delle proposte di sgangherati taxi abusivi. E così, a piedi, ho varcato anche la frontiera.
Dall’altra parte del ponte c’è Poipet, un altro nome sulla cartina che non mi può, non ti può dire nulla.
Qui, non c’è da sorprendersi, ritrovo tutto quello che ho lasciato dall’altra parte. In peggio, se possibile: ed è possibile.
Questa città – esito a definirla in questo modo – ospita ventimila famiglie di diseredati, migrati qui da zone ancora più povere del paese: e da quale orrore più insopportabile di questo siano fuggiti, io non riesco proprio a concepirlo.
Ora sopravvivono in stamberghe di lamiera e foglie prive di acqua potabile e di fognature. Gli escrementi finiscono in rivoli di melma putrida e nera che scorrono a due passi, dove giocano i bambini o si vendono gli alimenti. I più disperati frugano nell’immondizia, assieme a cani spelacchiati che da soli basterebbero a deprimerti.
Tutto questo è di per se stesso insopportabile, ma lo è ancora di più perché qui, a Poipet, non c’è solo questo. A pochi metri da qui si aprono le porte di casinò che forse non saranno lussuosi come a Macao o a Hong Kong, però scintillano in questo mare di fango. Qui turisti e nuovi ricchi del sud-est asiatico possono sperperare a cuor leggero cifre con cui sfameresti tutta Poipet.
Poipet, è anche la principale base cambogiana del traffico di bambini verso la Thailandia.
Bambini da vendere per adozioni illegali, bambini da usare come mendicanti o da utilizzare come forza lavoro a costi irrisori. Bambini da ridurre in schiavitù o da avviare alla prostituzione.
Per lo meno è educativo: in posti come questi si può davvero toccare con mano che il comunismo è riuscito a produrre effetti esattamente agli antipodi di quelli auspicati e proclamati.
Un mondo senza classi doveva cancellare l’economia di mercato e invece ora il mercato è padrone di tutto. E tutto si può vendere e comprare.
Ma questa è la Cambogia. E se dici Cambogia, non puoi non tornare continuamente alla mente a quello che è stato, che ha fatto, che ha rappresentato Pol Pot.
Allo stesso modo degli orrori del nazismo, nessuno potrà mai spiegare i tre anni, otto mesi e venti giorni di questa pazzia criminale.
Come è potuto succedere che un popolo così sereno e dolce precipitasse in questo inferno?
Me lo chiedo e chiedo ancora, e non ho risposte.
Però per quanto mi riguarda avverto il bisogno di una espiazione. Perché quello che è accaduto in Cambogia riguarda tutti.
Siamo parte della stessa storia, degli stessi ideali.
Nessuno di coloro che hanno combattuto per una società più libera e giusta poteva immaginarsi Pol Pot.
Maè nel nostro album di famiglia. E con lui un genocidio nel nome del comunismo.
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