In questi afosi giorni di agosto ricorre l'anniversario dell'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia , finì in quella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 il sogno di un socialismo dal volto umano. Voglio ricordarlo quel giorno con alcune pagine del libro "Caduti Dal Muro"che ho scritto con Paolo Ciampi.
Allora c’era la Cecoslovacchia,
non due paesi – la Repubblica Ceca e la Slovacchia – che si sono separati senza
guerra ma con la desolazione che c’è in tutti i divorzi spinti dalla rabbia e
dall’esasperazione.
Pensa: Repubblica Ceca e
Slovacchia. Non è come Germania dell’Est e Germania dell’Ovest. Per i tedeschi
la riunificazione stava nello stesso nome, mentre qui i nomi nuovi accolgono
una differenza e allo stesso tempo evocano un’amputazione.
La Cecoslovacchia.
La Cecoslovacchia e le truppe del
Patto di Varsavia che varcarono il confine.
Era la notte tra il 20 e il 21 Agosto del 1968.
E io ricordo tutto di quella notte.
Perché c’ero
anch’io, quella notte.
Di acqua sotto i
ponti ne è davvero passata tanta, ma le immagini che conservo sono ancora
nitide. Si affollano dentro di me con la prepotenza di un torrente di montagna.
E come potrei
dimenticare?
Quella notte mi
svegliarono le esplosioni che provenivano da un punto non lontano e il rombo
dei tanks sovietici.
Le finestre della
mia camera davano proprio sui viali di Piazza San Venceslao.
Mi alzai, stordito.
Mi affacciai e guardai, incredulo.
La piazza era invasa
dai carri armati. Si combatteva ancora, se si può qualificare come
combattimento un’azione violenta in una situazione di assoluta disparità di
forze.
Se chiudo gli occhi
mi sembra ancora di sentire il rumore sordo dei colpi e poi l’aria solcata dal
fumo delle loro traiettorie. Carri armati contro gruppi di ragazzi
asserragliati al Museo Nazionale, in un disperato tentativo di resistenza.
Su Praga non era
ancora arrivato il gelo delle grandi pianure orientali, ma la sua Primavera era
già stata soffocata.
Andò così, con lo
strapotere di Golia su Davide, perché poi la storia è così: raramente Golia si
lascia sconfiggere e se lo fa quasi sempre è solo per distrazione.
Ero tornato a Praga poco dopo essermi
sposato. Volevo rivedere e abbracciare gli amici della federazione giovanile
comunista praghese che avevo
conosciuto due anni prima, al festival internazionale di Helsinki.
Tutto sembrava tranquillo in quei caldi giorni d’estate. La
città era piena di turisti, i praghesi rientravano dalle ferie sui monti Tatra
o ai laghi della Boemia.
Le strade brulicavano di gente e
nei parchi i vecchi seguivano i giochi dei bambini, con la preoccupazione che è
dei nonni di tutto il mondo.
La Primavera di Praga, quella
politica, era iniziata presto quell’anno.
In pochi mesi Alexander Dubcek, il giovane segretario del
Partito Comunista, aveva scaldato il cuore del suo paese e riacceso le speranze
di milioni di comunisti in Europa e nel mondo.
La posta in gioco era alta: tenere insieme democrazia e
socialismo; far vivere, proprio in un paese comunista, una nuova idea di
libertà e di giustizia.
Nell’aria si respirava il profumo
pungente della rivoluzione, insomma. Di una rivoluzione giusta e incruenta, che
non avrebbe cancellato il passato, ma semmai lo avrebbe riportato sui binari
giusti.
Bisognava andare avanti proprio
per riannodare i fili spezzati, per completare, e completare bene, quello che a
un certo punto era girato male.
La Primavera di Praga era proprio
questo: non voltare le spalle al comunismo, ma riappropriarsene; restituire
dignità a una grande idea di cambiamento, per ridare anche a noi, che ci
credevamo appassionatamente, nuovo vigore, nuovo entusiasmo.
E furono quei colpi, quei colpi
che uccidevano la Primavera, a svegliarmi…
Il balzo verso la finestra, il
tempo di vestirmi, poi giù per le scale con la voglia di uscire nella piazza.
Il dolore, la rabbia, e insieme
pure la sensazione di vedere, di vivere la storia….
Avrei voluto protestare,
ribellarmi, indignarmi anch’io come la gente di Praga che, sbigottita e
umiliata, uscendo dalle case, correva incontro a San Venceslao.
Non so se ci sarei riuscito,
perché poi l’istinto deve misurarsi con le risorse di determinazione e
coraggio, prima ancora che del buon senso.
Non so, perché non mi è stata
data la possibilità di mettermi alla prova. La porta dell’albergo era sbarrata
da due ragazzi in divisa. A nessuno, e soprattutto agli ospiti stranieri, era
consentito di uscire.
Era la prima volta che provavo
sulla mia pelle la coercizione fisica. Presumibilmente anche l’ultima. E al
mondo, certo, ci sono ben altre proibizioni che incidono sulla tua libertà di
movimento, sugli spazi della tua vita, però io l’ho trovata ugualmente
insopportabile.
Forse la mia percezione sarebbe
stata diversa, ad aver sperimentato un carcere o un campo di concentramento, ma
la mia volontà era stata comunque frantumata, umiliata. Stritolata prima ancora
che dai cingoli dei carri armati dalle parole che un giovane ufficiale
dell’Armata Rossa, gentilissimo nei modi, continuò a ripetere senza sosta: «Tranquilli,
tranquilli, è solo una normale operazione militare. Siamo stati chiamati per
ristabilire l’ordine»
. Come se davvero ci potesse
essere qualcosa di “normale”, in quella “operazione”.
Passaporto alla mano, fecero
accomodare tutti gli stranieri nella sala del vecchio Caffè Europa da cui ora
ti sto scrivendo, Paolo. Qui veniva spesso Franz Kafka, lo scrittore che forse
più di tutti ha scandagliato l’inquietudine di un uomo moderno senza possibilità
di riscatto nelle religioni e nelle ideologie.
Sedeva davanti a un piccolo
tavolo di marmo verde e attraverso le vetrate osservava la piazza. Forse
proprio qui ha scritto alcune pagine dei suoi racconti.
Ti ricordi le prime parole della Metamorfosi?
«Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregori Samsa
si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto».
E mi pare che lo strano destino
di Gregori Samsa sia stato condiviso anche da questa meravigliosa città,
costretta a risvegliarsi in una notte popolata di giganteschi insetti di
acciaio che sputavano saliva di fuoco.
Così ricordo quell’agosto 1968,
un ricordo così intenso e così spiazzante da cancellarmene altri assai più
belli di un anno di colori, fermenti, idee in movimento da un angolo all’altro
del pianeta.
Il mio soggiorno in
Cecoslovacchia si concluse con un foglio di via obbligatorio e ventiquattro ore
di tempo per varcare la frontiera con la Germania. Cosa che feci
immediatamente: e quella, in un certo senso, fu la prima volta che voltai le
spalle al socialismo da quando, ragazzino, avevo accompagnato mio padre alle
riunioni in sezione.
Intanto i soldati sovietici
avevano provveduto a ristabilire l’ordine, così come ci aveva spiegato quel
giovane ufficiale. Lo avevano fatto con un bilancio di sangue tutto sommato
contenuto rispetto ad altri massacri – i morti furono una trentina – ma
imponendo enormi costi umani, ideali, politici.
Dubcek fu arrestato e portato a
Mosca. Ai tempi di Stalin non avrebbe fatto ritorno, ma ora invece che la vita
provarono a sottrargli la dignità. Finirà a lavorare come manovale in
un’azienda forestale nei dintorni di Bratislava.
Allo stesso modo gli altri
protagonisti della Primavera di Praga – politici, giornalisti, intellettuali –
furono espulsi dal partito e privati del loro lavoro. Diventarono operai,
camerieri, muratori.
L’ordine restaurato, per una
volta, seppe fare bene il suo gioco: condannando a morte si generano martiri,
condannando a vivere vite umiliate si spezzano le reti della solidarietà.
Cinici ma intelligenti.
Qualche mese più tardi, per la
precisione era la sera del 16 gennaio 1969, un giovane studente si avvicinò al
monumento del Re Santo. Sotto il cappotto nascondeva una tanica di benzina. Se
la versò addosso e si diede fuoco con un accendino.
Le fiamme inghiottirono i suoi
capelli biondi e la sua esile corporatura da ragazzino.
Si chiamava Jan Palach, quel
ragazzino, e bruciò come un bonzo vietnamita.
Il fuoco si portò via la sua vita, ma accese una speranza che
sopravvisse per venti anni tondi tondi, fino a che il muro di Berlino,
crollando, non fece rotolare i suoi calcinacci fino a Praga.
Niente di tutto questo mi pare
vero, ora che sono di nuovo a Praga, di nuovo all’Hotel Europa, ora che
converso con Anna del passato e del presente e poi ancora del passato.
Non mi sembra vero, se solo
spingo gli occhi fuori della vetrata, la stessa vetrata di trentasette anni fa,
e indugio sulle comitive di turisti giapponesi mordi e fuggi, sulle pubblicità
di hot-dog e di videocamere,
sulle vetrine scintillanti di negozi che sono altrettanti archi di trionfo del
capitalismo ruggente e globale.
http://youtu.be/MzgoFyCfMPo
RispondiEliminaY en a qui meurent bien trop tard
Quand leur paradis est passé
Y en a qui meurent au hasard
D'un coup de dé
Y en a qui meurent sans savoir
Qu'ils ne sont jamais nés vraiment
Y en a qui meurent sans espoir
Et pleins d'argent
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent dans les mémoires
C'est bien plus que perdre la vie
Où ceux qui restent quittent le noir
Et vous oublient
Y en a qui meurent en marchant
Pour aller cacher leur vieillesse
Aux neiges du grand désert blanc
Pleines de promesses
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent parce que c'est beau
De voir le soleil se coucher
Et d'attendre le jour nouveau
De l'autre côté
Y en a qui meurent en dormant
En offrant un sourire aux anges
Y en a qui meurent encore enfants
Et gagnent au change
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent la bouche pleine
En libérant un dernier rot
En se caressant la bedaine
Mais trop c'est trop
Quand d'autres vont le ventre vide
Berçant leur mort à bout de bras
En suivant la main qui les guide
Là où on ne les verra pas
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent par erreur
Pour une poussière sur la balance
Quand la justice a ses rancœurs
Ou ses absences
Y en a qui meurent dans les poubelles
Les bannis de la société
Leur rêve au bout d'une ficelle
Ballon crevé
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent au printemps
Comme des éclairs, comme des flambeaux
Barrant la route un court instant
Aux chars d'assaut
Y en a qui meurent avec permis, matriculé
Comme il se doit
Laissant un casque et un fusil
Sur une croix
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent tous les soirs
Quand le spectacle est terminé
Quand ils retrouvent dans leur miroir
Leur vérité démaquillée
Y en a qui meurent en marguerite
Effeuillée d'une main distraite
Un peu, beaucoup, beaucoup trop vite
Et ça s'arrête !
Je voudrais mourir dans tes bras [x3]
Prends ma main, ne la lâche pas