E' stato un giorno importante, anche se forse non tutti ce ne siamo accorti. Eppure è così: lo scorso primo marzo centinaia di città, piccole e grandi, in Italia, in Francia, Spagna e Grecia hanno ospitato una singolare protesta: lo “sciopero degli immigrati”, in cui milioni di persone occultate e negate, nonostante il loro contributo alla nostra economia e alla nostra società, hanno alzato la voce per i loro diritti. E si sono svolte manifestazioni un po’ dovunque, ma non ad Arezzo.
Una buona occasione, per restituire dignità a un popolo che semplicemente non si vede. O peggio, che si vede, ma viene visto solo come un fattore di allarme sociale e di angoscia collettiva.
Perciò è stato importante, al di là del numero di quanti hanno partecipato, che il “primo marzo degli immigrati” abbia avuto successo, aprendo la strada ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse.
E allora la domanda è: perché ad Arezzo nessuno si è mosso in appoggio a questo sciopero? E voglio chiamare in causa i partiti e in primo luogo il Partito Democratico. Ma non solo. Perché non hanno espresso la loro solidarietà le istituzioni pubbliche?
E magari mi sbaglio, ma a differenza che in altre realtà toscane non ho visto nemmeno un grande impegno del sindacato.
Se è così, e credo che sia proprio così, non si è capito che in gioco c'erano e ci sono due cose importantissime. La prima è la nostra economia. Se andassero via gli stranieri cosa succederebbe? Chi farebbe un’infinità di lavori indispensabili, soprattutto quelli legati ai servizi alla persona?
In gioco però c’è anche un’altra cosa importantissima, che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono nelle case degli aretini e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”.
Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni.
Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere.
Mi sono chiesto più volte perché in Italia non è mai nato un movimento di massa come SOS Racisme in Francia. Penso a molti motivi ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere - e non in senso ideologico o solidaristico - un amico immigrato?
Questo paese ha dimenticato cosa è stata l’emigrazione italiana nel mondo. E soprattutto in un periodo di crisi la paura verso il diverso e verso l’emarginato diventa la risposta più facile. Quasi scontata, nell’insopportabile clima di “egoismo sociale” che attraversa il nostro paese.
Abbiamo fatto dei Rom il nuovo capro espiatorio, stiamo criminalizzando i poveri del mondo e si sta introducendo una normativa dove, clandestino, è uguale a criminale.
Si parla d’immigrazione clandestina, beninteso, come se l’extracomunitario in regola con le impronte venisse invece accolto fraternamente nei recinti di filo spinato nei cantieri edili al nero, o sottopagati nelle aziende del Nord-Est e nei campi rossi di pomodori del centro o del sud, nei quartieri residenziali dove porta a spasso il vecchietto.
E allora sì, c’è qualcosa di davvero preoccupante in questa nostra assenza allo sciopero degli immigrati. ( tito barbini, corriere di arezzo 6 marzo 2010)
Una buona occasione, per restituire dignità a un popolo che semplicemente non si vede. O peggio, che si vede, ma viene visto solo come un fattore di allarme sociale e di angoscia collettiva.
Perciò è stato importante, al di là del numero di quanti hanno partecipato, che il “primo marzo degli immigrati” abbia avuto successo, aprendo la strada ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse.
E allora la domanda è: perché ad Arezzo nessuno si è mosso in appoggio a questo sciopero? E voglio chiamare in causa i partiti e in primo luogo il Partito Democratico. Ma non solo. Perché non hanno espresso la loro solidarietà le istituzioni pubbliche?
E magari mi sbaglio, ma a differenza che in altre realtà toscane non ho visto nemmeno un grande impegno del sindacato.
Se è così, e credo che sia proprio così, non si è capito che in gioco c'erano e ci sono due cose importantissime. La prima è la nostra economia. Se andassero via gli stranieri cosa succederebbe? Chi farebbe un’infinità di lavori indispensabili, soprattutto quelli legati ai servizi alla persona?
In gioco però c’è anche un’altra cosa importantissima, che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono nelle case degli aretini e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”.
Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni.
Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere.
Mi sono chiesto più volte perché in Italia non è mai nato un movimento di massa come SOS Racisme in Francia. Penso a molti motivi ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere - e non in senso ideologico o solidaristico - un amico immigrato?
Questo paese ha dimenticato cosa è stata l’emigrazione italiana nel mondo. E soprattutto in un periodo di crisi la paura verso il diverso e verso l’emarginato diventa la risposta più facile. Quasi scontata, nell’insopportabile clima di “egoismo sociale” che attraversa il nostro paese.
Abbiamo fatto dei Rom il nuovo capro espiatorio, stiamo criminalizzando i poveri del mondo e si sta introducendo una normativa dove, clandestino, è uguale a criminale.
Si parla d’immigrazione clandestina, beninteso, come se l’extracomunitario in regola con le impronte venisse invece accolto fraternamente nei recinti di filo spinato nei cantieri edili al nero, o sottopagati nelle aziende del Nord-Est e nei campi rossi di pomodori del centro o del sud, nei quartieri residenziali dove porta a spasso il vecchietto.
E allora sì, c’è qualcosa di davvero preoccupante in questa nostra assenza allo sciopero degli immigrati. ( tito barbini, corriere di arezzo 6 marzo 2010)
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