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martedì 10 agosto 2010

ritorno alla Terra del Fuoco



Così, dopo appena un anno, il sogno ha acquistato la solidità di una scelta.

I voli transoceanici, si sa, solitamente sembrano non passare mai, sono fatti apposta per condannarti all’impazienza e alla claustrofobia, ma questa volta le ore mi sono scivolate via bene. Le incertezze e i sottili sensi di colpa li ho abbandonati alla svelta, affidandoli ai cieli sopra l’Italia.

Ho salutato l’azzurro dell’oceano sopra di me e mi sono abbandonato all’eccitazione di un “salto” da un continente all’altro che ha il sapore non solo di una partenza verso lo sconosciuto ma anche di un ritorno a ciò che conosco e amo.

Non mi sono fermato a Buenos Aires, città bellissima che sa toccarmi corde segrete, Parigi della mia anima. Avevo messo in conto lo sgarbo e nemmeno la fatica del jet-lag mi ha indotto a cambiare idea e prendermela comoda.

Ho fame di spazi immensi, ho fame di vuoti e di silenzi. Smanio per quella solitudine di cui ho beneficiato nelle distese della “pampa” e sugli altipiani delle Ande.

E così andrà, anche questa volta.Anzi, questa solitudine voglio rimetterla al centro dei miei pensieri, voglio che diventi fonte e ispirazione della vita che mi spetta ancora, voglio chiederle aiuto per proseguire nella conoscenza di me stesso.

Perché il viaggio è anche questo, la consapevolezza che il mondo che rimane da esplorare può ormai essere un niente, ma che il mondo aiuta sempre a esplorare ciò che di te è ancora “terra incognita”.

Lo diceva Marcel Proust, con una frasetta oggi abusata perfino dai tour-operator, ma non per questo meno vera:

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.

avvicinarmi di più a quanto mi riguarda da vicino. Più circospetto, forse, però sincero.

In fondo questo è già un bel risultato: di tutto questo ho già trovato il coraggio di parlare.

Sono sicuro che è il primo dono di un viaggio che, in attesa dell’Antartide, mi consente di riallacciare i fili della memoria, di ritrovare gli scenari, gli odori, i suoni – primo tra tutti il suono incessante del vento – che, seducendomi, hanno fatto nascere la mia storia d’amore con questa terra.

Ed eccomi qui, quasi per incanto, eccomi ad aspet- tare il traghetto che mi farà attraversare lo Stretto di Magellano e raggiungere la mitica Terra del Fuoco.

Che emozione: non importa quanta terra, quanto mare ho ancora davanti a me.

Qui mi pare di appartenere ad altri mondi, ad altre epoche. Mi sdraio sulla sabbia appoggiando la testa sul- lo zaino e lascio andare la fantasia a briglia sciolta.

E immagino il capitano Ferdinando Magellano, il portoghese al servizio della corona spagnola che intra- prese la prima circumnavigazione del globo, l’uomo che partì dall’Europa verso Occidente per raggiungere l’Asia e che qui trovò il varco per raggiungere l’Oceano Pacifico.

Lo immagino, cinquecento anni prima di me, che dalla prua della sua nave scruta l’altra sponda del canale la Terra del Fuoco prima che si chiamasse Terra del Fuoco.

A proposito, andò così. Scrutando queste coste Magellano vide levarsi dai villaggi degli indios alte colonne di fumo e gli venne naturale battezzarla Terra del Fumo. Quando tornò a casa, il suo datore di lavoro, Carlo Quinto re di Spagna, ebbe da ridire: dove c’è il fumo, pontificò, c’è anche il fuoco. E certo non si poteva non dare retta al sovrano dell’impero sul quale non tramontava mai il sole.

E fu così che questo posto che per la maggior parte dell’anno ti riserva tempeste di neve e vortici di venti gelidi prese a chiamarsi Terra del Fuoco.

E mentre non mi stanco di rimirare i disegni che le più belle nuvole che abbia mai visto incessantemente fanno e disfanno mi viene da pensare anche a un altro europeo che, giovanissimo, si trovò ad affrontare que- sto leggendario passaggio tra i due grandi oceani del mondo. Si chiamava Charles Darwin ed era lontano dall’essere riconosciuto come il grande scienziato padre di una teoria dell’evoluzione destinata a sconvolgere se- colari convinzioni.

Forse nemmeno lui avrebbe saputo spiegare perché alla fine si era ritrovato a bordo del Beagle, il brigantino della Royal Navy che il 27 dicembre 1831 era salpato da Davenport per fare il giro dell’intero emisfero sud.

Magari aveva annusato la grande occasione della vi- ta. Oppure semplicemente si era imbarcato per evitare altri destini. Per esempio, per scansare un padre che lo avrebbe voluto pastore d’anime, figurarsi, proprio lui, l’uomo di una scienza che la religione ha fatto molto fatica a digerire e forse non c’è ancora riuscita del tutto.

Me lo vedo qui, il giovane Charles, molti anni dopo il capitano Magellano. Anche lui se ne sta appollaiato sulla prua della nave che lo sta consegnando alla distesa marina il cui nome è una sfacciata menzogna, il Pacifico. Passa giornate intere a indagare la vita che gli si presen- ta davanti in una prodigiosa varietà di forme e specie. Di lì a poco approderà alle isole Galapagos delle infinite meraviglie, dove davvero potrà decifrare i misteri dell’evoluzione e tradurli in parole che noi leggeremo sui nostri manuali di scienze.

Mi fa pensare, quello scienziato ragazzo, nemmeno 22 anni compiuti e un futuro enorme davanti a lui.

Dopo il suo viaggio sul Beagle, non si mosse più da Down House, la residenza nel Kent dove mise a punto e poi per scritto le sue convinzioni scientifiche. Cambiò il mondo senza più girarlo, il mondo, forse addirittura sazio di questo mondo.

E io che il mondo ho provato a cambiarlo insieme ad altri milioni di altre persone, tutte accomunate dalla speranza nelle possibilità della politica, io il mondo non l’ho cambiato, però non sono mai sazio di girarmelo.

Ora sono qui, e raramente mi sono sentito così bene come su questo fazzoletto di sabbia. Guardo passare le barche e non cerco parole per le mie emozioni. In que- sta terra non mi sento straniero.

Mi viene di salutare i pescatori che ormeggiano nel piccolo porticciolo accanto al molo. Il viandante, mi sovviene, è colui che saluta per primo. Lo faccio con na- turalezza, credo, come un vecchio amico che condivide la loro fatica.

Loro mi restituiscono un sorriso, poi alzano la voce imprecando contro il cielo. Ce l’avranno con me?

Perché no? Per loro possono essere il solito straniero rompiscatole, il turista impiccione che si vive come fol- clore locale la fatica e la sofferenza di chi tira a campare.

Almeno i miei capelli bianchi, però, dovrebbero fugare ogni dubbio sulle mie reali intenzioni.

No, non ce l’hanno con me. Ce l’hanno con la sorte. Con il tempo brutto e il mare grosso che da giorni vani- fica la loro pesca.

Ho l’impressione che da queste parti non manchino le occasioni di inveire per queste cose, durante tutto l’anno. Trattengo un sorriso e spingo il mio sguardo più avanti.

Ormai sta arrivando il traghetto. Quando sarò sull’altra sponda, là dove secondo la contorta geografia politica di questa estrema propaggine americana l’Argentina lascia posto al Cile, mi sa tanto che cederò alla tentazione di un fuori programma.

(Tito Barbini "Antartide" Edizioni Polistampa")

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