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martedì 3 agosto 2010

Viaggio in Cambogia


Ho appreso dai giornali che in questi giorni un tribunale internazionale ha emesso una prima condanna contro il direttore del famigerato carcere S21. Ecco il mio ricordo.


Dalle risaie ai campi della morte


Cosa penso di ritrovare in questo tormentato paese dove si è massacrato sotto la spinta del peggiore fanatismo ideologico?

Questa domanda non si può eludere, in questa fetta di terra asiatica in cui la lotta al colonialismo e all’ingiustizia sociale è precipita- ta, nel nome di qualcosa e di qualcuno, fino al genocidio e allo ster- minio di massa.

Sono entrato dal Vietnam dei miei sogni giovanili per incontrare la Cambogia dei miei incubi.

Perché questo è il paese che, più di ogni altro, interpreta la tragedia e l’incanto dell’Indocina e del suo grande fiume. Ancora oggi, quasi trent’anni dopo.

È un afoso mattino di agosto, quello che mi accompagna lungo il ponte dell’orrore. Lo chiamo così perché, mentre lo attraverso, mi passano davanti agli occhi le immagini, inquietanti e tristi, della miseria dell’uomo.

Quella vera.

Senza inutili aggettivi, stridenti con la realtà.

Chau Doc è l’ultima città vietnamita prima del confine. In real- tà poco più di un immenso campo profughi dove, negli anni, si è ammassata la popolazione sfuggita all’orrore e alla follia di Pol Pot.

I campi hanno lasciato il posto a un indistinto cumulo di baracche, fatte di paglia impastata con il fango e coperte da foglie di palma. Qua e là qualche costruzione in mattoni è adibita a piccolo hotel per turisti di passaggio o a edificio pubblico.

La frontiera a Vinh Xuong rappresenta il centro, assurdo e cospi- cuo, del disordine che complica la quotidiana necessità di vivere. A sorprenderti è una curiosa sensazione di immobilità, assolutamente incongrua rispetto alla consueta esperienza della frenesia asiatica.

Oltre il confine, il girone perverso riprende a muoversi. Come in un dipinto di Bosch, in cui l’umanità che attraversa il peccato è con- dannata all’inferno, anche qui i personaggi riprendono a compiere le loro normali cattive azioni.

La spirale della miseria e della violenza che le cammina accanto si rigenera continuamente.

Sono appena arrivato in Cambogia e già mi viene da pensare a una scrittrice che amo molto: Hannah Arendt.

Uno dei suoi libri più importanti, La banalità del male, mi intro- duce dentro un ragionamento sulla natura della tragedia cambogiana. Tante domande si affollano nella mia mente e una sovrasta tutte

le altre: cos’è davvero la banalità del male? Non è una domanda oziosa se uno si trova a camminare tra i

poveri resti ancora sparsi nelle fosse comuni del campo di sterminio di Choeung Ek, macabro terminale della famigerata prigione S21.

Hannah Arendt aveva seguito, in qualità di reporter, il processo in Israele al criminale nazista Adolf Eichmann. Dal processo e dalle testimonianze ascoltate aveva tratto la convinzione che la pratica dello sterminio di massa dovesse suggerire, o meglio imporre, una profonda riflessione attorno al concetto di male.

E penso davvero che il male che in Cambogia ha sterminato milioni di persone non possa essere spiegato solo con la natura tota- litaria e ideologica che motivava la terribile violenza dei khmer rossi.

Non basta la paranoia di Pol Pot a dare un senso alla contabilità dei morti e degli orrori, a spiegare davvero quello che è accaduto.

L’ex liceo francese di Phnom Penh è un grande edificio polvero- so di mattoni con le gallerie disposte intorno a due grandi cortili pieni di alberi e piante grasse. La scuola era conosciuta con il nome di Tuol Sleng.

Qui si trovava l’S21, il mattatoio, orribile galera dove i khmer rossi interrogavano e torturavano i prigionieri per strappare loro assurde confessioni prima di portarli fuori città, nelle risaie trasfor- mate in killing fields, in campi di sterminio.

Si dice che di qua siano passate almeno ventimila persone. Solo sette sono sopravvissute. Mi muovo nei corridoi esterni e sento sali- re la nausea. Dopo il primo piano non ce la faccio più, il caldo e l’orrore mi chiudono la gola.

Tuol Sleng è un luogo maledetto e intollerabile. E certo non per- ché pensi ai giorni del liceo, quando le classi di ragazzi sciamavano festanti al suono della campanella.

Ancora oggi inciampi in continuazione nelle catene e negli stru- menti di tortura che hanno lasciato disseminati accanto agli schele- tri delle brande di ferro.

Qualcuno ha scritto sul muro, segnando con le unghie o con il proprio sangue il nome e l’età. Chissà quale disperato significato potesse avere questa ultima conferma di sé.

Però la cosa che ti ferisce di più, che proprio non sopporti, è vedere i volti delle vittime. Ci sono stanze piene di foto ingiallite di persone ammazzate.

Mi pare di sentirle le loro urla in questo silenzio assordante.

Le foto appassite dal tempo restituiscono occhi spenti e atterriti, facce lontane che ti raggiungono, dopo una lunga assenza dalla tua coscienza, per ricordarti che erano lì negli anni in cui tu eri altrove.

Ho visitato tanti altri luoghi di sofferenza e di morte.

Campi di sterminio nazisti, musei del genocidio in ogni parte del mondo. Camere a gas o stanze della tortura, ovunque.

In ognuno di questi posti ho letto cartelli che chiedevano rispet- to e silenzio da parte dei visitatori. Mai mi era capitato un cartello con su scritto: «Vietato ridere». Anche se l’unica scritta è in caratte- ri khmer, l’immagine sul cartello sbarrato di rosso all’ingresso non ha bisogno di traduzione.

Del resto vorrei sapere chi potrebbe ridere o anche solo aver voglia di sorridere. Qui ci si può solo vergognare di far parte dell’u- manità, qui ci si può aggirare per le stanze con in faccia la mortifi- cazione e lo sdegno ma proprio nessuna voglia di ridere.

Edificio maledetto, questo S21, monumento al fanatismo politi- co cieco, idiota e assurdo. Con la sua scrupolosa, ossessionante con- tabilità della morte prima della fossa comune.

Le famiglie venivano prelevate tutte insieme, perché non si distingueva tra l’uno e l’altro, si faceva tutto all’ingrosso, senza la fatica di arresti isolati. Poco importava se nella rete finivano anche neonati, oppure vecchi. Tutti facevano la stessa fine. Almeno due- mila bambini sono stati ammazzati tra queste mura.

Ad accompagnarmi all’interno di S21 è Chey Sopheara, l’attuale direttore di Tuol Sleng.

È lui a raccontarmi i primi giorni dopo la liberazione della città da parte dei vietnamiti.

Toccò a lui il compito di ripulire l’edificio, portare via i corpi dei torturati rimasti all’interno, lavare dal sangue versato il marciapiede antistante, fare in modo che quell’odore di morte che impregnava le mura si attenuasse.

Dopo tre anni, otto mesi e venti giorni di Pol Pot mancavano

all’appello due milioni di cambogiani su una popolazione di sette milioni e mezzo di abitanti, con una media di quasi duemila esecu- zioni al giorno. La Cambogia è stata davvero un orrendo, inconce- pibile mattatoio.

Le città furono svuotate, gli abitanti deportati nelle campagne. Non c’erano più poste, telefoni, scuole, università, niente esisteva più. Tutto si era fermato all’improvviso e tutto era diventato estraneo alla vita di milioni di persone. Solo il Partito e la terra erano rimasti

nel giorno e nella notte di ognuno. Chi non lavorava la terra non mangiava, chi pensava produceva

solo memoria e la memoria apparteneva al passato. Perché il passa- to era un crimine.

Del resto anche chi semplicemente portava gli occhiali era un intellettuale e quindi destinato a morire.

Nessuna famiglia fu risparmiata durante la rivoluzione rossa. Anche coloro che furono tra i primi a sposarne la causa spesso il giorno dopo si ritrovarono fra gli accusati.

Ogni debolezza, ogni sguardo, ogni accenno di sincerità rischia- va di precipitare chiunque tra i nemici del popolo. Succedeva che gli stessi figli denunciassero i loro genitori, talvolta per paura ma, più spesso, perché plagiati dal regime. E forse sta in questo il segno più tragico, la cifra, della capitolazione della ragione all’istinto bestiale.

Non c’è solo il sangue: dalla tragedia cambogiana emerge anche un paesaggio interiore desolato e apocalittico, segnato dalla caduta libera verso l’abisso di ogni ragionevolezza, di ogni sentimento di pietà.

Il tutto in nome di una folle ideologia.

Vorrei capirlo meglio, ma sono portato a credere che oltre l’ideo- logia dei carnefici ci possa essere posto solo per un’angoscia esisten- ziale intima, assoluta, personale e privata e come tale solitaria.

Possibile tutto questo?

È inutile avventurarsi in un tentativo di lucidità storica, inutile provare a spiegare che anche per la Cambogia, in effetti, furono grandi le colpe dell’Occidente. Non serve a niente addossare le colpe agli altri per giustificare l’orrore provocato dall’ideologia comunista.

Credo che in effetti ci sia solo una cosa che valga la pena fare: mantenere la memoria delle tragedie, delle crudeltà, delle sofferen- ze, attingere pietà e anche coraggio dal pozzo della nostra anima.

Semmai è giusto chiedersi: perché siamo stati inermi e silenziosi di fronte a questo genocidio?

Questa domanda, lo so, non mi abbandonerà mai per tutto il viaggio. Ed è meglio così.

A mia discolpa, e sempre che questo serva davvero, potrei anch’io approdare facilmente alla conclusione che le rivoluzioni, anche quella russa e cinese, sono state soltanto una tragedia anzi che tutte le rivoluzioni spesso riproducono il male che vorrebbero estirpare.

Però c’è qualcosa che non mi convince. Ecco perché non mi spingo fino all’abiura.

Se guardo alla Cambogia non ho dubbi, in effetti. Però conservo ancora l’impressione che queste degenerazioni non appartengano all’idea iniziale.

Non so come spiegarlo ma non credo fino in fondo all’innocen- za dei vincitori. Intendo dei vincitori di oggi.

Provo a domandarmi: che cosa farei se tornassi indietro nel tempo? Perché mai durante la guerra del Vietnam non avrei dovuto stare dalla parte dei vietnamiti? E perché mai non avrei dovuto riporre qualche speranza nel comunismo cinese che, con la Lunga marcia di Mao, sollevava il più popoloso paese del mondo da un

secolare destino di miseria e servitù? E la rivoluzione russa? E quel- la cubana? Furono solo e soltanto una grande menzogna?

Potrei sedermi sulla riva del fiume e lavarmene le mani. Ma temo che questo non mi porti a niente.

E allora confesso che se mi ritrovassi nelle stesse condizioni stori- che mi metterei dalla stessa parte. Magari senza illusioni, magari con sofferenza. E semmai vorrei avere la forza, la chiarezza, per denunciare gli orrori, per raccontare ogni verità, perché ogni verità è sempre e comunque rivoluzionaria, ma sul serio, non come si pro- clamava un tempo a colpi di slogan.

Il comunismo, anche quello che ha battuto strade diverse, ha perso la sua sfida alla democrazia, in tutto il mondo. Ma di quell’i- dea di emancipazione e libertà i Pol Pot di tutto il mondo sono stati davvero i peggiori nemici: di qualunque cosa si riempissero la bocca.

(Tito Barbini, "I Giorni del Riso e della Pioggia" Vallecchi Editore )


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