Il 19 Ottobre 2012 presenterò Antartide nella "Libreria Del Mare" di Palermo
Per questa occasione ripropongo ai miei amici viaggiatori della Sicilia una
bella recensione di Augusto Guidi
Eccolo il Polo Sud, altrimenti detto Antartide. E
“Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo” è appunto, il titolo de suo libro di viaggi nel continente estremo, ora in libreria. Cento
pagine nelle quali l’autore racconta il suo lungo, lento avvicinamento al
continente di giaccio che gli si annuncia come “una linea infinita di tessuto
bianco immacolato”. Quella “linea d’ombra” che arriva attraverso i sogni, i
ricordi, le emozioni di un vecchio ragazzo che, come il protagonista del famoso
racconto di Conrad “... avverte di dover lasciare alle spalle le ragioni della
prima gioventù ...”.
Eppure, l’autore ha ben altre
età rispetto al giovane ufficiale conradiano. Quello che sorprende nel libro di
Tito Barbini è il fresco ed intatto incantamento dei giovani che consente di
vedere le cose come se fossero state create in quel momento: proprio per noi.
E, ancora, la febbrile inquietudine dell’attesa, poi disciolta nel ritmo del
viaggio e nel flusso ininterrotto di immagini e pensieri. In maniera
struggente, in queste pagine, sembra che il tempo si sia
effettivamente fermato alla fatata età dell’infanzia e dell’adolescenza e
resti intatta la voglia di vedere cose nuove e di perdersi in un luogo estremo,
di sperimentare in profondità gli impalpabili fantasmi della solitudine, unica
e ineluttabile condizione per fare i conti con sé stesso e comprendere il senso
della propria vita. La prima metà del libro, scandita nelle tappe del lungo
viaggio, si intreccia senza soste nel percorso a ritroso tra le ormai
inafferrabili ombre del passato. Quasi che al succedersi di paesaggi e cose
sempre nuove si sovrapponessero la lontana realtà della piccola città natale,
il calore della famiglia, le passioni e le illusioni della politica. Qui
tornano, come nel precedente libro di Tito Barbini, ma forse in forma più
sofferta e compiuta, i ricordi del babbo, la delicata immagine della sorella Gimma,
la scoperta del mondo sulla grande carta geografica De Agostini dell’aula
scolastica e sul piccolo mappamondo con la luce dentro. Intanto la Patagonia,
Punta Arenas e Ushuaia, le città più meridionali del mondo, Capo Horn e le sue
tempeste, lo stretto di Drake, le guizzanti balenottere, sempre più giù verso
il limite estremo della terra in un viaggio che diventa realmente un rito
iniziatico, ricco di attesa e di mistero. Infine, a bordo di quel curioso
rompighiaccio ex sovietico, incongruo ma sottilmente evocativo residuo del
passato, quella linea che preannuncia l’Antartide. I colori del cielo, il lento
navigare dei giganteschi icebergs, le lontane vette innevate e, su tutto,
l’immane profondissimo silenzio di un mondo intero inesplorato, eguale a se stesso
da millenni. Non deve essere stato certamente facile descrivere quei luoghi.
Tito Barbini ci è riuscito con grazia, senza indulgere agli stereotipi di una
facile letteratura di consumo, rifuggendo da molesti punti esclamativi,
portandoci con sé e restituendoci con grande pudore, oltre ai colori e ai
profili sconosciuti di una natura estrema, la verità di un viaggio interiore e
di una esperienza alla maggior parte di noi negata, per tutti irripetibile. Una
Antartide, quella di Tito Barbini, misteriosa e fantastica, quasi
inesprimibile, ma anche una Antartide vicinissima a tutti noi, umana e
familiare direi, quanto le ragioni del cuore e le urgenze del ricordo.
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