I colori di Benetton
Ancora una volta scrivo queste righe da molto lontano. Sto risalendo il grande deserto patagonico, puntando verso Buenos Aires, qui finisce il mio viaggio e tra pochi giorni rientro ad Arezzo. Scrivo in un momento di sosta in questo mio cammino sulla terra che fu degli indiani Mapuche.
Però più mi perdo in queste emozioni e più torno a riflettere sulle infinite relazioni che uniscono terre e realtà del mondo. E c'è sempre qualcosa che, sia più o meno visibile, più o meno scontato, mi riporta comunque all'Italia e alla mia città.
Per esempio, questa. Nel mio primo viaggio nella Patagonia cilena e argentina ho avuto la fortuna di conoscere alcuni membri della comunità Mapuche.
Un popolo che conta un milione di persone in Cile e forse un altro mezzo milione in Argentina.
E cosi ogni volto che torno in Patagonia mi fermo a Esquel, nella provincia del Chubut, per incontrare Rosa e Attilio Curinonco. La loro storia è straordinaria, ho cercato di raccontarla nei miei libri e anche in questo giornale. Oggi voglio capire come è andata a finire.
Va subito ricordato che i Mapuche sono i più poveri ed emarginati tra quanti vivono in Argentina. Da molti anni conducono una lotta e una sacrosanta protesta contro alcune multinazionali. In cima alla lista c’è la United Colors di Luciano Benetton. Le accuse che i Mapuche rivolgono al marchio italiano sono pesanti.
Benetton ha acquistato dai governi dell’Argentina e del Cile centinaia di migliaia di ettari, forse un milione, di terra. Peccato che per gli indios sono i luoghi dove sono vissuti e morti i loro antenati. Oggi, su questo grande latifondo, pascolano più di mezzo milione di pecore della famiglia Benetton.
Oggi i Mapuche, che in queste terre hanno sempre vissuto di pastorizia, non possono più disporre né dei pascoli né dell’acqua. Cancelli e recinti sono ormai ovunque. E se trovano lavoro negli allevamenti il minimo che si possa dire è che è sono sottopagati.
Cosa sta succedendo? Inutile tentare giri di parole, per i Mapuche la risposta è semplice: tutto questo produrrà una ulteriore frattura nel rapporto ancestrale con il loro territorio.
Ma torniamo alla famiglia Curinonco e al loro rapporto con Benetton.
La storia prende lo spunto da una strana sentenza emessa da Tribunale della provincia di Chubut, in Patagonia. Le parti in causa erano il cittadino italiano Luciano Benetton e i coniugi Mapuche Attilio e Rosa Curinonco. Il tribunale, era prevedibile, ha dato ragione al primo.
La “ragione” di chi è più potente ha prevalso sulle ragioni di indigeni che, pur senza lo straccio di un documento, rivendicavano il piccolo pezzo di terra dei loro padri da cui erano stati cacciati.
Oggi, a distanza di più di quattro anni dopo lo sfratto, quella terra è ancora disabitata e inutilizzata. Però credo che una cosa si possa dire con molta chiarezza: la multinazionale di Benetton nasconde dietro la “United Colours of Benetton” una realtà che contraddice pesantemente la sua immagine politica e commerciale.
In ogni caso questa è anche la storia di una grande battaglia, una battaglia in cui il Golia di turno non ha ancora del tutto sopraffatto il suo Davide. Novecentomila ettari della Patagonia, con oltre un milione di pecore al pascolo e in attesa di sfruttamento di giacimenti petroliferi, fanno i conti con una piccola famiglia di indiani Mapuche.
Sfrattati dalla loro terra, sradicati e soli, i coniugi Curinonco continuano a chiedere giustizia. Attendono ancora che qualcuno li ascolti. In Italia sono stati in molti a occuparsi di loro, da Valter Veltroni al giornalista Gianni Minà. Si è cercato anche di fare incontrare i Benetton con la famiglia Curinonco. L’incontro è avvenuto a Roma. Benetton ha fatto l’offerta di “regalare” qualche ettaro alla famiglia Mapuche. Loro hanno rifiutato. Non si regala ciò che appartiene , caso mai si restituisce.
C'è anche un pezzo di Italia, anche in questa storia, e questo è indiscutibilmente vero, sta nei fatti. Ma oggi altre notizie mi rimbalzano dall'Italia, notizie e immagini terribili che guardo allibito attraverso i siti giornalistici on line. I fatti Rosarno, la “caccia al nero”, la battaglia e poi l'espulsione degli immigrati che evidentemente non servono più ora che hanno finito la raccolta delle arance. Prima, quando servivano, erano pagati 20 euro al giorno e su quel “guadagno” dovevano pagare il pizzo alla criminalità organizzata.
Sono sconcertato di fronte a un ministro dell'interno che denuncia quegli schiavi moderni come illegali e si dimentica dell'illegalità che controlla davvero quei territori (e quegli schiavi), cioè la 'ndrangheta. Sono sconcertato di fronte a un ministro della pubblica istruzione che in pratica pensa a quote etniche per le nostre scuole.
E allora questi immigrati mi sembrano in qualche modo fatti della stessa umanità sofferente, sfruttata, umiliata che ho visto nei Mapuche. E sento anch'io un carico di vergogna e di responsabilità. Non so cosa fare, non riesco nemmeno a chiedermi cosa sia diventato il mio paese. Ma torno dall'Argentina sempre più convinto di essere un cittadino del mondo. Anche ad Arezzo porterò questa mia consapevolezza, con le mie parole, i miei gesti quotidiani.
Ancora una volta scrivo queste righe da molto lontano. Sto risalendo il grande deserto patagonico, puntando verso Buenos Aires, qui finisce il mio viaggio e tra pochi giorni rientro ad Arezzo. Scrivo in un momento di sosta in questo mio cammino sulla terra che fu degli indiani Mapuche.
Però più mi perdo in queste emozioni e più torno a riflettere sulle infinite relazioni che uniscono terre e realtà del mondo. E c'è sempre qualcosa che, sia più o meno visibile, più o meno scontato, mi riporta comunque all'Italia e alla mia città.
Per esempio, questa. Nel mio primo viaggio nella Patagonia cilena e argentina ho avuto la fortuna di conoscere alcuni membri della comunità Mapuche.
Un popolo che conta un milione di persone in Cile e forse un altro mezzo milione in Argentina.
E cosi ogni volto che torno in Patagonia mi fermo a Esquel, nella provincia del Chubut, per incontrare Rosa e Attilio Curinonco. La loro storia è straordinaria, ho cercato di raccontarla nei miei libri e anche in questo giornale. Oggi voglio capire come è andata a finire.
Va subito ricordato che i Mapuche sono i più poveri ed emarginati tra quanti vivono in Argentina. Da molti anni conducono una lotta e una sacrosanta protesta contro alcune multinazionali. In cima alla lista c’è la United Colors di Luciano Benetton. Le accuse che i Mapuche rivolgono al marchio italiano sono pesanti.
Benetton ha acquistato dai governi dell’Argentina e del Cile centinaia di migliaia di ettari, forse un milione, di terra. Peccato che per gli indios sono i luoghi dove sono vissuti e morti i loro antenati. Oggi, su questo grande latifondo, pascolano più di mezzo milione di pecore della famiglia Benetton.
Oggi i Mapuche, che in queste terre hanno sempre vissuto di pastorizia, non possono più disporre né dei pascoli né dell’acqua. Cancelli e recinti sono ormai ovunque. E se trovano lavoro negli allevamenti il minimo che si possa dire è che è sono sottopagati.
Cosa sta succedendo? Inutile tentare giri di parole, per i Mapuche la risposta è semplice: tutto questo produrrà una ulteriore frattura nel rapporto ancestrale con il loro territorio.
Ma torniamo alla famiglia Curinonco e al loro rapporto con Benetton.
La storia prende lo spunto da una strana sentenza emessa da Tribunale della provincia di Chubut, in Patagonia. Le parti in causa erano il cittadino italiano Luciano Benetton e i coniugi Mapuche Attilio e Rosa Curinonco. Il tribunale, era prevedibile, ha dato ragione al primo.
La “ragione” di chi è più potente ha prevalso sulle ragioni di indigeni che, pur senza lo straccio di un documento, rivendicavano il piccolo pezzo di terra dei loro padri da cui erano stati cacciati.
Oggi, a distanza di più di quattro anni dopo lo sfratto, quella terra è ancora disabitata e inutilizzata. Però credo che una cosa si possa dire con molta chiarezza: la multinazionale di Benetton nasconde dietro la “United Colours of Benetton” una realtà che contraddice pesantemente la sua immagine politica e commerciale.
In ogni caso questa è anche la storia di una grande battaglia, una battaglia in cui il Golia di turno non ha ancora del tutto sopraffatto il suo Davide. Novecentomila ettari della Patagonia, con oltre un milione di pecore al pascolo e in attesa di sfruttamento di giacimenti petroliferi, fanno i conti con una piccola famiglia di indiani Mapuche.
Sfrattati dalla loro terra, sradicati e soli, i coniugi Curinonco continuano a chiedere giustizia. Attendono ancora che qualcuno li ascolti. In Italia sono stati in molti a occuparsi di loro, da Valter Veltroni al giornalista Gianni Minà. Si è cercato anche di fare incontrare i Benetton con la famiglia Curinonco. L’incontro è avvenuto a Roma. Benetton ha fatto l’offerta di “regalare” qualche ettaro alla famiglia Mapuche. Loro hanno rifiutato. Non si regala ciò che appartiene , caso mai si restituisce.
C'è anche un pezzo di Italia, anche in questa storia, e questo è indiscutibilmente vero, sta nei fatti. Ma oggi altre notizie mi rimbalzano dall'Italia, notizie e immagini terribili che guardo allibito attraverso i siti giornalistici on line. I fatti Rosarno, la “caccia al nero”, la battaglia e poi l'espulsione degli immigrati che evidentemente non servono più ora che hanno finito la raccolta delle arance. Prima, quando servivano, erano pagati 20 euro al giorno e su quel “guadagno” dovevano pagare il pizzo alla criminalità organizzata.
Sono sconcertato di fronte a un ministro dell'interno che denuncia quegli schiavi moderni come illegali e si dimentica dell'illegalità che controlla davvero quei territori (e quegli schiavi), cioè la 'ndrangheta. Sono sconcertato di fronte a un ministro della pubblica istruzione che in pratica pensa a quote etniche per le nostre scuole.
E allora questi immigrati mi sembrano in qualche modo fatti della stessa umanità sofferente, sfruttata, umiliata che ho visto nei Mapuche. E sento anch'io un carico di vergogna e di responsabilità. Non so cosa fare, non riesco nemmeno a chiedermi cosa sia diventato il mio paese. Ma torno dall'Argentina sempre più convinto di essere un cittadino del mondo. Anche ad Arezzo porterò questa mia consapevolezza, con le mie parole, i miei gesti quotidiani.
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