In queste ore è ripresa la violenta repressione, da parte degli occupanti cinesi, nei confronti dei tibetani. Non posso far altro che testimoniare la mia vicinanza alla gente del Tibet con un capitolo del mio ultimo libro "Caduti dal Muro".
Sul tetto del mondo
Quando ci penso, provo gratitudine nei confronti di una vita che mi ha concesso questa fortuna: sono capitato in tanti posti meravigliosi di questo nostro mondo che ormai faccio fatica a contarli, o comunque a rammentarli tutti con l’intensità che ciascuno di essi meriterebbe.
Ognuno di questi luoghi è stato per me un dono. Un dono atteso, un dono che era nell’aria, nella maggior parte dei casi.
Più raramente la meraviglia è andata oltre ogni aspettativa. Come ora, qui: tra tutti, Paolo, questo è davvero il dono più inaspettato.
Ho colto al volo un’altra occasione e da ieri sono in Tibet: basta pronunciarlo questo nome – Tibet – e dentro ti si scuote qualcosa.
Il senso di sorpresa che provo, è chiaro, ha poco a che vedere con la casualità di questa destinazione: questa, lo sai bene, non è affatto una novità.
A pensarci bene, poi, non è nemmeno la distanza tra il Tibet che mi si spalanca davanti e le mie aspettative, comunque alte. Semmai a prendermi in contropiede è una coincidenza, tra la realtà e quanto mi illudo di aver sempre sognato.
Ecco, proprio così.
Qui in Tibet sto sperimentando sensazioni confuse, che mi scivolano via piacevolmente come una brezzolina primaverile. Fossi un ragazzino, potrei riconoscerle come i sintomi di una bella cotta. Meglio, di un colpo di fulmine.
Qualcosa del genere mi è successo nelle distese della Patagonia o al cospetto degli sterminati laghi salati dell’altipiano boliviano.
E ora in Tibet: con la stessa meraviglia per la mia capacità di meravigliarmi ancora. Ma anche con qualcosa di diverso: un crampo allo stomaco per qualcosa che si sta irrimediabilmente perdendo.
Gli amori più tenaci, del resto, sono sempre tinti di nostalgia. E figurarsi con il Tibet, un luogo dove a ogni momento non sai se inchinarti a una bellezza che viene da lontano oppure recriminare sulle offese del presente.
Sono sul tetto del mondo: e chissà quante volte hai sentito questa espressione. È banale, ma tanto non è che ci siano molte parole per rendere conto di emozioni come queste.
Puoi solo apprezzarne la sincerità. Intuire cosa si può provare di fronte a una natura che ti si concede con un brivido di eternità. Magari constatare quanto possa essere semplice, essenziale, la tua vita, così come sono semplici, essenziali, i colori di questo mondo, dominato dal bianco, dal verde, dall’azzurro.
E poi c’è la gente del Tibet. Sì, anche questo è davvero importante.
Con tutto quello che vi è successo Lhasa appare ancora come una comunità che trattiene altri tempi. Una città misteriosa e magica, disposta al sorriso.
E il Potala: la residenza del Dalai Lama fino a che non è stato costretto all’esilio.
Con un solo colpo d’occhio provi ad abbracciare questo palazzo unico al mondo che si dice abbia al suo interno almeno mille stanze e capisci all’istante che non potrai giudicarlo solo per la sua spettacolare architettura.
Il Potala ti lascia senza fiato perché, volente o nolente, avverti che non è fatto solo di mattoni, non è solo materia che si innalza al cielo per tredici piani. Qualsiasi cosa sia stata impiegata per costruirlo, nell’impasto non deve essere mancata tanta ancestrale saggezza.
Pare proprio che le sue tremila finestre siano altrettanti occhi illuminati, capaci di scrutare ben oltre la candida parete dell’Himalaya, sulla vita di tutti, sull’inspiegabile pulsare dell’universo intero.
Che emozione, Paolo, arrampicarsi per le ripide scale che ti conducono al suo interno. L’ascesa non è solo una questione di altitudine e questo lo capisci appena sei su, con il fiato rotto dalla fatica e la sensazione di aver varcato una porta dello spirito, accolto dalla cantilena dei monaci che intonano i mantra.
Non so dirti per quanto tempo me ne sono rimasto lì, davanti alle lampade accese nel burro di yak, mescolato tra le migliaia di pellegrini che ogni giorno salgono alla residenza celeste e si prosternano davanti agli altari dorati.
So solo che a un certo punto anch’io ho chinato il capo sui piatti dove tutti, prima di tornarsene alle loro abitazioni, lasciano la loro offerta.
Alla prima non ci ho fatto caso, ma l’istante dopo ne sono rimasto folgorato.
Ai piedi delle statue dei Budda spuntano decine, centinaia di immagini di Mao Tse Tung.
Non che ci sia niente di straordinario. Semplicemente, il volto del Grande Timoniere è riprodotto in tutte le monete e tutte le banconote cinesi. E oggi, anche da queste parti, è più facile donare denaro, piuttosto che frutta o riso o quant’altro. Segno dei tempi.
Ma segno dei tempi è anche il ritratto di Mao che spunta ovunque, non per devozione o per un omaggio sentito, figurarsi, solo perché è così, perché è la Cina che comanda.
Così ti tocca onorare il Budda con l’uomo che ha inviato il suo esercito per inghiottire il Tibet e farne una provincia remota e anonima della Cina Popolare.
Per non parlare di quello che è successo dopo: dici Mao e pensi al Dalai Lama in esilio, alla rivoluzione culturale che ha provato a cancellare un’intera religione, ai templi bruciati e ai monaci in prigione, al milione di morti tibetani, cifra per approssimazione.
Da oltre mezzo secolo dura l’occupazione cinese del Tibet e ogni giorno viene derubato un frammento di verità e di tradizione autentica.
Perché poi sta succedendo anche questo. I cinesi hanno costruito strade e aeroporti, aperto uffici, fabbriche, negozi. Dopo millenni di isolamento oggi Lhasa la puoi raggiungere comodamente in treno, partendo da Pechino.
Così i cinesi possono gridare ai quattro venti che il paese è uscito da un medioevo che non finiva più. Il Tibet si sta modernizzando, grazie a loro.
E chiamiamola pure modernizzazione. A me piuttosto fa venire in mente una devastante operazione chirurgica, un trapianto innaturale contro la volontà di chi è steso sul tavolo.
Però non è nemmeno questo il punto.
Mi chiedo semmai se il popolo tibetano passerà giorni migliori con la modernizzazione alla cinese. Se vivrà una vita più felice con qualche monastero in meno e qualche fast-food in più.
Discutibile, è ovvio.
Ma in ogni caso quello che mi disturba di più è che ci si riempia la bocca di parole come libertà e democrazia solo quando serva per gli interessi di bottega.
Siano quello che siano, i tibetani. Però siano quello che desiderano, no? Con i loro silenzi, le loro preghiere, i loro sorrisi.
E invece da mezzo secolo sono soli e inascoltati.
Il mondo è indifferente, o meglio, troppo interessato alle ragioni del gigante cinese, con cui si fanno sempre buoni affari.
Perché preoccuparsi di un popolo che può vantare solo maestri di sapienza?
Scendendo per le scale del Potala è come fossero rimaste con me quelle immagini di Mao Tse Tung. E ora mi è chiaro, non potevano che stare lì.
Impresse su una banconota, prima ancora che ai piedi del Budda.
(dal libro "Caduti dal Muro" ediz. Vallecchi 2009)
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