TITO BARBINI SULLA BIRMANIA E I SUOI MONACI RIBELLI
di Tito Barbini
A causa di un terribile ciclone almeno 100.000 birmani sono morti. Ma in Birmania non c’è solo un disastro naturale. La corrotta e brutale giunta militare non ha avvertito la popolazione non l’ha fatta sfollare e ha bloccato le comunicazioni. Dobbiamo aiutare il popolo birmano ricercando in internet l’efficace rete di aiuto dei monasteri (per dare un aiuto cliccate qui). Sono stato in Birmania nell’estate del 2007 pochi giorni prima che esplodesse la rivolta dei monaci. A loro dedico questi miei appunti di allora.
Eccoli i monaci ribelli.
Irriducibili sovvertitori del regime militare che da quarant’anni soffoca la Birmania.
Non lo nascondo: ho un debole per loro.
Gente straordinaria, capace di scuoterti dall’indifferenza e donarti sempre baleni di serenità.
Scalzi, con la testa rasata e le tonache rosse mi vengono incontro sereni e festanti unendo le mani in segno di saluto e di preghiera. Molti di loro sono ancora dei ragazzini. Vengono giù dagli smisurati scaloni della Pagoda Shwedagon, il cuore spirituale della Birmania e sciamano verso il centro della città. Sono loro i protagonisti di questa rivoluzione democratica che cresce ogni giorno e ogni giorno è repressa con ferocia dagli anacronistici militari che come tiranni fuori dal tempo dai loro palazzi lontani ordinano il massacro. continua...
LETTERA DAL TIBET - di Tito Barbini
Sul tetto del mondo
di TITO BARBINI
Quando ci penso, provo gratitudine nei confronti di una vita che mi ha concesso questa fortuna: sono capitato in tanti posti meravigliosi di questo nostro mondo che ormai faccio fatica a contarli, o comunque a rammentarli tutti con l’intensità che ciascuno di essi meriterebbe.
Ognuno di questi luoghi è stato per me un dono. Un dono atteso, un dono che era nell’aria, nella maggior parte dei casi.
Più raramente la meraviglia è andata oltre ogni aspettativa. Come ora, qui: tra tutti, Paolo, questo è davvero il dono più inaspettato.
Ho colto al volo un’altra occasione e da ieri sono in Tibet: basta pronunciarlo questo nome – Tibet – e dentro ti si scuote qualcosa.
Il senso di sorpresa che provo, è chiaro, ha poco a che vedere con la casualità di questa destinazione: questa, lo sai bene, non è affatto una novità.
A pensarci bene, poi, non è nemmeno la distanza tra il Tibet che mi si spalanca davanti e le mie aspettative, comunque alte. Semmai a prendermi in contropiede è una coincidenza, tra la realtà e quello che mi illudo di aver sempre sognato.
Ecco, proprio così. Qui in Tibet sto sperimentando sensazioni confuse, che mi scivolano via piacevolmente come una brezza primaverile. Fossi un ragazzino, potrei riconoscerle come i sintomi di una bella cotta. Meglio, di un colpo di fulmine.
Qualcosa del genere mi è successo nelle distese della Patagonia o al cospetto degli sterminati laghi salati dell’altipiano boliviano. E ora in Tibet: con la stessa meraviglia per la mia capacità di meravigliarmi ancora. Ma anche con qualcosa di diverso: un crampo allo stomaco per qualcosa che si sta irrimediabilmente perdendo.
Gli amori più tenaci, del resto, sono sempre tinti di nostalgia. E figurarsi per il Tibet, dove a ogni momento non sai se inchinarti a una bellezza che viene da lontano o recriminare sulle offese del presente.
Sono sul tetto del mondo: e chissà quante volte hai sentito questa espressione. È banale, ma tanto non è che ci siano molte parole per rendere conto di emozioni come queste.
continua...
Durante i miei anni americani i viaggi di gran lunga superavano i periodi che restavamo a casa.
RispondiEliminaErano gli anni ’80, al College iniziavo i primi passi sui Mac nella sala computer dello Student Union, niente email ne internet, ancora embrioni nella testa della grande Mela. Pertanto i miei ricordi si legarono a scatti fotografici che non rappresentavano minimamente il senso di quanto invece colpiva la mia mente, e li si scolpiva. Mentre tu, caro amico, stavi già prendendo parte ai grandi discorsi e ai grandi ideali.
Il viaggio in Cina fu diverso da tutti gli altri, anche i futuri, così eccezionale per una ragazza che si era appena tuffata nella magnificenza dell’America, degli Usa. Non ero affatto preparata sui luoghi da visitare ne avevo avuto il tempo per fantasticare.
Oggi , a distanza di anni dal mio viaggio , e non ho più le foto, mi ritrovo con la memoria di quei giorni meravigliosi , le sensazioni , i sentimenti , la storia e la realtà.
Leggendoti sul disastro e la violenza subita dai monaci tibetani, riprendo consapevolezza di alcune sensazioni di shock al mio arrivo in Cina. Fu a Tjianjin.
Era il 1987, due anni ancora e il mondo fu inchiodato davanti alle immagini di Tiananmen Square.
Mio marito ed io fummo invitati da una qualche organizzazione governativa a coordinare possibili sponsorship per studenti cinesi che avrebbero potuto studiare e specializzarsi nelle università americane a condizione che poi sarebbero tornati per restituire servizio al loro paese, la Cina, e pertanto, come ostaggi, le loro famiglie inviavano le figlie femmine, con il desiderio infinito che queste riuscissero a sposarsi e sperare nella libertà.
Il volo Hong Kong –Tjanjin era interminabile e causa l’assenza di sofisticati sistemi radar, a cui mi ero invece abituata, per circa 2 ore volammo sul cielo della città mentre prendevo consapevolezza dell’estensione del territorio sottostante, abitato da 8 milioni di persone – quelle ufficialmente registrate all’anagrafe. Non c’erano dubbi: la Cina è immensa e pertanto tutto va di pari passo.
Atterrati e finalmente spanciati fuori, noi allo stesso modo dei nostri bagagli, fummo prelevati e protetti in area riserva agli occidentali, in u n aeroporto il cui tetto in lamiera, e niente più, non faceva di certo pensare ad un cantiere ancora aperto con i cartelli “man at work”. Era l’aeroporto.
Auto nere e autisti, come dei nostri anni ’50, ci portarono attraverso strade sterrate, le main roads, alla nostra residenza, una villa proprietà del governo con all’ingresso la guardiola con due militari.
I nostri passaporti furono presi e tenuti in custodia per tutto il soggiorno in Cina. Io,ancora con tracce di italianità, non fui poi tanto sconvolta, in fondo cosa potevo temere. Mio marito di colpo si sentì nudo come un lombrico: la sacralità della sua cittadinanza americana fu incredibilmente violata, mentre continuavo a rassicurarlo che niente poteva accadere.
Garbatamente eravamo assistiti, inutilmente serviti da un numero sprecato di persone impiegate per mansioni umilianti,come addetto solo ad aprire le porte, a servire l’acqua nella camera. Una lista idiota.
Dormivamo in camere separate, non per nostra scelta. Non sapevo mai se potevo o meno uscire dalla villa, immensa e che affacciava su un lago con alcuni tempietti riservati per le passeggiate. Gli incontri con i vari funzionari governativi si svolgevano nei decadenti saloni, tutti seduti e schierati, faccia a faccia, in poltrone di velluto decorate con i centrini, riscaldati dal thè. Rituali rapidamente acquisiti per poter comunicare, se non altro ci si provava.
Compresi il significato di essere in una prigione di cristallo, non fu un viaggio di vacanza e curiosità, costretta comunque a sottostare ad un confronto con il regime. Certo non mancarono le visite turistiche di rito, che tali furono: turistiche.
Cercai appoggio con la nostra interprete: stabilimmo un tacito accordo di fraterno sostegno. Con lei uscivo da sola, andando per mercati e strade, con attenzione di antropologa più che di turista, cercando di colmare in qualche modo il gap culturale che mi divideva da quella realtà.
Visitammo fabbriche di tessuti, elettronica – le condizioni lavorative erano shockanti. La gente, stanca per un qualche motivo, con naturalezza si stendeva sul ciglio polveroso della strada ed era capace di dormire, mentre biciclette cariche di ogni cosa passavano equilibratamente accanto.
Le scuole erano rigorose ed ospitavano come mini college ragazzi fin dalla giovane età che manifestavano particolari qualità e talenti. Ma nessuna espressione.
Attraversavo le giornate come per una magica trasposizione del tempo: un tempo che non mi apparteneva, al quale non avevo mai esultato per la politica, e della quale no me ne era fin allora importato niente. Riconoscevo come familiari tracce degli ex- quartieri coloniali, e comunque mi riconducevano ad una familiarità americana. Niente di italiano , niente della mia età, niente di me.
Visitammo prima di rientrare ad Hong Kong, Shanghaj, e poi Beijing. Avevo insistito. Volevo vedere, volevo mischiarmi tra la gente.
Provavo autentico dispiacere per questo popolo, costretto a vivere una condizione che non gli apparteneva. Mi piacevano per la loro laboriosità, il loro senso della famiglia, l’ingenuità disarmante e il pudore dei loro modi, il senso di riservatezza e di orgoglio che avvisavo aver caratterizzato in passato il popolo cinese. Avvisavo nella grandiosità di quanto rimaneva a ricordo che queste erano state tra le più belle città del mondo ed il popolo cinese meritava fiducia. Nell’aria si sentivano fermenti di fervori democratici.
Oggi direi una Cina che cambiava ,si affacciava alla vita democratica ed era proprio sotto i miei occhi.
Francesca Tenti