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domenica 17 gennaio 2010

Mapuche


I colori di Benetton

Ancora una volta scrivo queste righe da molto lontano. Sto risalendo il grande deserto patagonico, puntando verso Buenos Aires, qui finisce il mio viaggio e tra pochi giorni rientro ad Arezzo. Scrivo in un momento di sosta in questo mio cammino sulla terra che fu degli indiani Mapuche.
Però più mi perdo in queste emozioni e più torno a riflettere sulle infinite relazioni che uniscono terre e realtà del mondo. E c'è sempre qualcosa che, sia più o meno visibile, più o meno scontato, mi riporta comunque all'Italia e alla mia città.
Per esempio, questa. Nel mio primo viaggio nella Patagonia cilena e argentina ho avuto la fortuna di conoscere alcuni membri della comunità Mapuche.
Un popolo che conta un milione di persone in Cile e forse un altro mezzo milione in Argentina.
E cosi ogni volto che torno in Patagonia mi fermo a Esquel, nella provincia del Chubut, per incontrare Rosa e Attilio Curinonco. La loro storia è straordinaria, ho cercato di raccontarla nei miei libri e anche in questo giornale. Oggi voglio capire come è andata a finire.
Va subito ricordato che i Mapuche sono i più poveri ed emarginati tra quanti vivono in Argentina. Da molti anni conducono una lotta e una sacrosanta protesta contro alcune multinazionali. In cima alla lista c’è la United Colors di Luciano Benetton. Le accuse che i Mapuche rivolgono al marchio italiano sono pesanti.
Benetton ha acquistato dai governi dell’Argentina e del Cile centinaia di migliaia di ettari, forse un milione, di terra. Peccato che per gli indios sono i luoghi dove sono vissuti e morti i loro antenati. Oggi, su questo grande latifondo, pascolano più di mezzo milione di pecore della famiglia Benetton.
Oggi i Mapuche, che in queste terre hanno sempre vissuto di pastorizia, non possono più disporre né dei pascoli né dell’acqua. Cancelli e recinti sono ormai ovunque. E se trovano lavoro negli allevamenti il minimo che si possa dire è che è sono sottopagati.
Cosa sta succedendo? Inutile tentare giri di parole, per i Mapuche la risposta è semplice: tutto questo produrrà una ulteriore frattura nel rapporto ancestrale con il loro territorio.
Ma torniamo alla famiglia Curinonco e al loro rapporto con Benetton.
La storia prende lo spunto da una strana sentenza emessa da Tribunale della provincia di Chubut, in Patagonia. Le parti in causa erano il cittadino italiano Luciano Benetton e i coniugi Mapuche Attilio e Rosa Curinonco. Il tribunale, era prevedibile, ha dato ragione al primo.
La “ragione” di chi è più potente ha prevalso sulle ragioni di indigeni che, pur senza lo straccio di un documento, rivendicavano il piccolo pezzo di terra dei loro padri da cui erano stati cacciati.
Oggi, a distanza di più di quattro anni dopo lo sfratto, quella terra è ancora disabitata e inutilizzata. Però credo che una cosa si possa dire con molta chiarezza: la multinazionale di Benetton nasconde dietro la “United Colours of Benetton” una realtà che contraddice pesantemente la sua immagine politica e commerciale.
In ogni caso questa è anche la storia di una grande battaglia, una battaglia in cui il Golia di turno non ha ancora del tutto sopraffatto il suo Davide. Novecentomila ettari della Patagonia, con oltre un milione di pecore al pascolo e in attesa di sfruttamento di giacimenti petroliferi, fanno i conti con una piccola famiglia di indiani Mapuche.
Sfrattati dalla loro terra, sradicati e soli, i coniugi Curinonco continuano a chiedere giustizia. Attendono ancora che qualcuno li ascolti. In Italia sono stati in molti a occuparsi di loro, da Valter Veltroni al giornalista Gianni Minà. Si è cercato anche di fare incontrare i Benetton con la famiglia Curinonco. L’incontro è avvenuto a Roma. Benetton ha fatto l’offerta di “regalare” qualche ettaro alla famiglia Mapuche. Loro hanno rifiutato. Non si regala ciò che appartiene , caso mai si restituisce.
C'è anche un pezzo di Italia, anche in questa storia, e questo è indiscutibilmente vero, sta nei fatti. Ma oggi altre notizie mi rimbalzano dall'Italia, notizie e immagini terribili che guardo allibito attraverso i siti giornalistici on line. I fatti Rosarno, la “caccia al nero”, la battaglia e poi l'espulsione degli immigrati che evidentemente non servono più ora che hanno finito la raccolta delle arance. Prima, quando servivano, erano pagati 20 euro al giorno e su quel “guadagno” dovevano pagare il pizzo alla criminalità organizzata.
Sono sconcertato di fronte a un ministro dell'interno che denuncia quegli schiavi moderni come illegali e si dimentica dell'illegalità che controlla davvero quei territori (e quegli schiavi), cioè la 'ndrangheta. Sono sconcertato di fronte a un ministro della pubblica istruzione che in pratica pensa a quote etniche per le nostre scuole.
E allora questi immigrati mi sembrano in qualche modo fatti della stessa umanità sofferente, sfruttata, umiliata che ho visto nei Mapuche. E sento anch'io un carico di vergogna e di responsabilità. Non so cosa fare, non riesco nemmeno a chiedermi cosa sia diventato il mio paese. Ma torno dall'Argentina sempre più convinto di essere un cittadino del mondo. Anche ad Arezzo porterò questa mia consapevolezza, con le mie parole, i miei gesti quotidiani.

domenica 10 gennaio 2010

ritorno a buenos aires





Anche questa, come Arezzo, è ormai la mia città. Poco importa che sono rare le volte che posso respirare la sua aria, addentrarmi nelle sue strade. Buenos Aires è sempre radicata nel mio cuore, nella mia fantasia, anche per i mesi dell'anno in cui vivo a casa mia. Anche se già l'espressione “a casa mia” avrebbe bisogno di essere approfondita, specificata, sicuramente chiarita, prima di tutto a me stesso.
E dunque vi scrivo da Buenos Aires. Sono tornato volentieri in questa città, ho con lei quel legame particolare che puoi avere solo con le città che scegli. Sono stregato da qualcosa che non saprei descrivere bene ma che ha a che fare con l’anima di questo posto. E per tutto questo ci sono poche motivazioni facilmente spendibili.
La città in sé non ha una fisionomia immediatamente accessibile o forme architettoniche che io possa definire, con convinzione, belle. Nel suo primo viaggio a Buenos Aires, l’ispettore Pepe Carvalho, il personaggio di Vàzquez Montalban parla di una delle strade più simboliche della città Avenida Corrientes, come di un “ambiente caotico che invecchia, come se le attività commerciali e gli edifici congiurassero per il massimo disaccordo estetico”.
Naturalmente, per i bonaurensi Corrientes è la strada più bella del mondo.
In realtà è una città che mi fa venire in mente diverse altre città viste e conosciute. Attraversarla è come sfogliare un album di ricordi. Penso ai palazzi di Parigi e Londra, ai grattacieli di New York, alle terrazze con i balconi di ferro battuto come Madrid, forse non belli come gli originali ma dal
fascino discreto e seducente.
Oppure penso a repliche d’interi quartieri, italiano o spagnolo, che qualcuno ha fatto lo scherzo di trapiantare quaggiù popolandoli di attori e comparse che recitano alla perfezione la nostalgia.
Alle volte mi sembra di rivivere scene della mia remota giovinezza. Buenos Aires è una città meticcia, un crogiolo di razze e culture, una città che si crede europea ma che sogni e reinventa New York. In fondo come vorrei che fossero tutte le città del mondo, anche la nostra Arezzo, perché sono convinto che le differenze che riescono a convivere fanno la forza di una città, producono ricchezza, alimentano attrattive.
A Buenos Aires cammini in una grande strada con enormi platani e facciate pompose, quindi ti perdi in tutte le stradine laterali, scoprendo piazzette segrete e caffetterie con baristi dall’aria annoiata, le pareti ingiallite dal tempo e dal fumo, con sale buie e banconi di granito bianco, quasi tutti inaugurati negli anni della grande emigrazione.
E nei mille caffè rivivono anche i luoghi letterari con gli scrittori che hanno creato il suo mito, i poeti del tango e i filosofi dell’esistenzialismo.
Sì, penso davvero che l’argentino abbia preso quasi tutto della vecchia Europa. Spesso ha copiato anche male ma non si è fatto mancare niente.
Qui si confondono tutti gli stili immaginabili. Borges aveva capito tutto questo e diceva: “Io sono sempre stato e sempre starò a Buenos Aires. E’ una città che fa presagire tutte le altre. Non si
lascia mai del tutto, si continua a costruirla ricombinando le istantanee sbiadite che emergono dalla memoria”.
Penso spesso a Jorge Luis Borges in questo mio errare per la città e temo che, forse, la sua Buenos Aires non esista più. Chissà se oggi, dopo anni di dittatura militare e di liberismi selvaggi e improvvisati, dopo le sommosse della gente armata di pentole, Borges potrebbe ancora rizzare le sue costruzioni fantastiche, regalando altre dosi di magia a questa città bellissima e abbandonata all’incuria, assediata e conquistata da migliaia di nuovi poveri.
Chissà se potrebbe ancora inventare i suoi labirinti e situare nella circolarità del tempo i suoi specchi misteriosi.
Amo questa città, nonostante tutto.
E la amo perché è fatta di gente in carne e ossa, perché è uno spezzatino di anime e culture, un miscuglio di caratteri diversi, così grande da far dubitare che esista.
Però esiste davvero. E mi ci trovo bene.
E forse dico tutto questo perché sono ancora alla ricerca del luogo cui appartengo, e non so se sarà un posto antico cui fare ritorno o un nuovo posto verso cui emigrare.
Cerco di sentirla ancora questa città e cercando le tracce di anni lontani e recenti forse comprenderò cosa è diventato il presente. Mi svestirò degli stereotipi segnalati dalle guide e ignorerò l’aneddotica che la riempie infarcendola, spesso, di ovvietà.
Molte cose di Buenos Aires mi aiuteranno ancora.
Per esempio le librerie di Florida, sempre aperte, molti piani di scaffali con i pertugi per le rare edizioni che altrove sono introvabili, librerie che mi accolgono anche a notte fonda quando la città si prepara a dormire. Per esempio l’antico Caffè Tortoni, i suoi tavolini neri di legno intarsiato, le
cioccolate bollenti sulle porcellane bianche, gli argenti spessi e opachi per il tè, anch’essi sciupati dal tempo. Un posto dove ti guardano e ti commuovono le poesie autografe di Borges appese sui muri, assieme agli spartiti dei tanghi di Gardel o agli schizzi dei pittori amati dagli argentini.
E ancora il maestoso Colon, teatro che trattiene magie, intriso di voci e di canto, il preferito da Caruso. Il cimitero della Recoleta con i vialetti liberty e la tomba di Evita, ma anche il cimitero immenso della Cacharita, sconfinata ultima stazione di arrivo di generazioni antiche di migranti, con la statua di Gardel sorridente cui non manca mai una sigaretta accesa tra le dita.
E la gente che corre nel maestoso parco del quartiere Palermo o incede nelle stradine che portano alla parte vecchia del barrio. I banchi degli ambulanti a San Telmo, gli ubriachi della nuova immigrazione del nord che dormono, gonfi di birra, sulle banchine di Porto Madero.
E, infine, la casa della Madri di Plaza De Mayo con la sua Università popolare, le foto e i fascicoli sempre aperti, dei figli o nipoti desaparecidos. E al caffè delle Madri, le insalate e le torte
più buone della città.
Parlerei all’infinito di questa città. Portandomi dietro questa città mi sentirò meglio anche ad Arezzo.
(tito barbini, corriere di arezzo 9/01/2010)

martedì 5 gennaio 2010

piccolo principe



Il postino della Patagonia

Da Nahuel Pan, nel mezzo della Patagonia più arida e dimenticata, un po’ prima della fine del mondo, ogni giorno, o quasi, parte un treno. Torna a Esquel da dove è partito, frontiera di neve col Cile. Forse sono più quelli che vengono da quelli che vanno.
Anch'io ho preso il treno patagonico invece di proseguire verso lo Stretto di Magellano. Oggi mi sento davvero lontano da Arezzo e da tutto quello che è stata la mia vita precedente. Sono ormai nella parte della Patagonia che annuncia la Terra del Fuoco, dove il continente si sbriciola nel verde dello stretto e le colonie dei pinguini ammorbano l’aria con il loro odore, inconfondibili.
Però non sei mai così distante da tutto. Per quanto lontano tu vada c'è sempre qualcosa che ti riporta a casa, con il cuore o con la testa. Intendendo per casa, a volte, non solo la tua terra, la tua città natale, ma proprio la dimensione più domestica e famigliare.
Più o meno è questo che mi succede anche ora. Perché il nome in cui mi imbatto, decisamente, a sorpresa, è un nome che credo moltissimi di voi conoscono e amano. Sicuramente è un nome che conoscono e amano i vostri bambini, se ce li avete. Sono convinto che per diversi di loro questo nome corrisponde a un libro che hanno trovato sotto l'albero di Natale. Per altri è una lettura consigliata o ricercata proprio in questi giorni di vacanze.
Insomma, penso al Piccolo Principe. Più precisamente all'autore del Piccolo Principe.
Quando il treno arriva a San Antonio Oeste, lo sguardo mi cade sulla nuova costruzione, alcuni chilometri prima delle case. E’ nuova, un piccolissimo aeroporto che la comunità ha dedicato proprio a lui, all’autore del Piccolo Principe, ad Antoine de Saint-Exupèry. Il Principito come lo chiamano qui.
Non era solo uno scrittore, quest'uomo. Anzi, era in primo luogo un pilota di aerei. Di più, sono convinto che senza le sue esperienze di volo non ci sarebbero state nemmeno le sue pagine. Bisogna volare alto, anche metaforicamente, per raggiungere cose molte concrete. Un libro o anche qualcosa di buono, di utile, per la nostra famiglia, per la nostra comunità, per la nostra città. E questo è il primo augurio per questo 2010 che con il Piccolo Principe mi rende vicino a tutti voi, a tutti noi, anche dalla Patagonia.
Pilotava l’aeropostale delle Ande, il giovane Antoine. Tutti i giorni. Da Bahia Blanca a Sant Antonio Oeste e da qui a San Julian e Rio Gallego. Arriva anche a Punta Arenas quasi ogni giorno, e non può non aver incontrato anche Alberto De Agostini, il salesiano di cui voglio raccontare la storia.
“Ho fatto un lungo volo di duemilacinquecento chilometri in un solo giorno - scrisse Antoine alla madre - è stato bellissimo tornare dall’estremo sud, dove il sole tramonta alle dieci di sera, presso lo stretto di Magellano. Là è tutto verde: città su dei prati. Strane piccole città di lamiere ondulate. E gente che, a forza di sentire freddo e di raccogliersi attorno ai fuochi, è divenuta simpaticissima”.
Quando il giovane lasciò il Sudamerica per dedicarsi al giornalismo e poi alla letteratura lasciò un vuoto enorme in questa terra, dove gli eroi e gli esploratori si riconoscevano da lontano.
Nessuno sa invece dire quando scomparve invece di morire. Come il Piccolo Principe, forse, decise di farsi mordere dal serpente per lasciare il pianeta nel quale si sentiva troppo solo.
Fu abbattuto con il suo aeroplano nel 1944, in piena seconda guerra mondiale, al largo di Marsiglia. Anche il Piccolo Principe, insomma, è stato travolto dalla guerra. Per questo il mio augurio per il 2010 non può che essere di nuovo, di nuovo ancora, con tutta la forza che ho dentro, un augurio di pace. Di più, un augurio che richiama alla responsabilità di tutti noi, al nostro impegno per la pace. Il Piccolo Principe ce lo ha insegnato, la pace parte da quello che siamo e vogliamo essere.
Ho letto da qualche parte, prima di partire per il mio viaggio, che un anziano ex pilota della Luftwaffe, ha ammesso di aver sparato a un aereo che poteva essere quello di Saint Exupéry.
Mi hanno fatto una certa impressione e colpito le sue emozioni. Ha detto che conosceva i suoi libri a memoria, che aveva cominciato a volare grazie a lui, che aveva sperato per anni di non averlo colpito. Chissà cosa gli sarà passato per la testa quando ha scoperto di aver abbattuto un poeta che stava volando ad ali spiegate.