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sabato 28 giugno 2008

Aspettando Dylan

Tito Barbini -Corriere di Arezzo Sabato 28 Giugno (nella foto Joan Baez e Bob Dylan negli anni 60)

Arezzo si prepara ad accogliere la seconda edizione di “Play Art”. Non posso prevedere come andrà, ma alcune cose si possono affermare da subito: il programma è molto bello, è il frutto di un lavoro accurato, porterà nella nostra città nomi di grande richiamo ma non scelti a caso, perché dietro di essi si intravede un filo solido, che ci fa un gran bene, il filo dell’impegno per la pace, i diritti, la tolleranza.
Nella nostra città arriveranno Joan Baez, Ben Harper, Peter Brook, Goran Bregovic, Carmen Consoli, i Negrita e tanti altri. Leggende della musica e del teatro assieme a nuove proposte culturali.
Insomma un programma che ci allinea alle città più vivaci e colte del nostro paese. Va dato atto a Camillo Brezzi e Lucia De Robertis (cultura e giovani) di aver volato alto e di aver colpito nel segno. Ed è doveroso farlo: sarebbe ingiusto non ricordare i meriti degli amministratori che, in altre occasioni, abbiamo invece criticato.
Alcuni amici mi hanno rimproverato per quanto, non molto tempo fa, ho detto in occasione di una trasmissione televisiva (“Ventuno e Trenta”), al momento della scelta di Mauro Valenti di abbandonare Arezzo con il suo marchio “Arezzo Wave”.
Dissi allora (e non fui solo) che non era stato fatto tutto il possibile per evitare quello sciagurato distacco e che si stava assistendo a un impoverimento culturale della città. Da una parte la chiusura del Teatro Petrarca dall’altra lo sventramento delle storiche sale cinematografiche per ospitare gallerie commerciali e uffici e cosi via cantando. E poi la perdita di “Arezzo Wave”, che fra tutte mi sembrava la più grave, perché difficilmente riparabile.
Mi devo ricredere, almeno per quanto riguarda quest’ultima manifestazione: con queste due edizioni di “Play Art” abbiamo dimostrato che anche quella perdita, così importante, poteva essere risarcita.
Naturalmente l’entusiasmo per “Play Art” non può nascondere tutti i nodi ancora da sciogliere. Restano aperti i problemi più strutturali e che potranno trovare risposta solo gettando solide fondamenta per un sistema funzionale della cultura, della formazione, della ricreazione che ci offra nuovi spazi per la lettura, la fruizione delle immagini, l’ascolto e la produzione della musica, le professioni creative. E se intanto riapre il Teatro Petrarca, siamo già sulla buona strada.
Ma non voglio affrontare un discorso tanto complesso. Preferisco parlare del programma di questa estate. Non lo nascondo: sono emozionato in attesa di alcuni eventi e mi piace pensare soprattutto a Joan Baez.
Già: non mi sembra vero, dopo tanti anni, canteremo di nuovo la pace, seduti per terra, con Joan Baez. I più giovani mi perdoneranno questa caduta emozionale da inguaribile reduce sessantottino, ma per me è difficile non tornare a quegli anni. Senza nulla togliere alla bellezza del suo canto, alla sua intensa ricerca musicale, Joan Baez, per quanto mi riguarda, è molte altre cose ancora.
Un tempo con lei cantavamo un mondo diverso. E ora mi basta il suo nome, per ricordare quel tempo, e me in quel tempo, quando ero pronto a sognare la rivoluzione giorno e notte in compagnia dei miei amici, a sacrificare serate e amori per piazzarmi davanti a un ciclostile a sfornare i volantini per una manifestazione, disposto persino a partire per il Vietnam a combattere contro il gigante americano, da inguaribile romantico, se solo qualcuno mi avesse preso in considerazione .
Come dimenticare quel Natale del 1972, quando Joan passò la notte in una Hanoi distrutta dai bombardamenti cantando We Shall Overcome, collegandosi idealmente con noi, con i giovani di tutto il mondo che protestavano nelle piazze e nelle università per quei bombardamenti…
Se posso rivolgermi all’assessore Brezzi con amichevole complicità, ora che l’illuminazione ha bussato alla sua porta, vorrei convincerlo che il successo di questa iniziativa gli offre un’altra ottima occasione: l’occasione di portare ad Arezzo l’altro grande monumento della canzone e dell’impegno pacifista e antimilitarista. Un mito e un’icona popolare.
Insomma, per dirla con Beckett e parafrasando il suo capolavoro: Aspettando Dylan.

giovedì 26 giugno 2008

Nel mio lungo girovagare per il mondo ho incontrato posti stupendi, non tutti, ma certamente quelli più rari e interessanti.
Il Tibet mi è parso un dono inatteso.
Ciò che da valore al viaggio è anche l’illusione di incontrare quello che hai sempre immaginato. E quando l’illusione diventa approccio concreto ad una dimensione reale ritrovi le cose che contano nella vita.
Nasce allora una storia d’amore.
La spinta all’innamoramento, che rende ancora più emozionante tutto questo, è la gente del Tibet. Lhasa ti appare subito come una comunità di un tempo lontano dal tuo. Una città misteriosa e magica a cui ogni giorno derubano un frammento di verità e di autentica tradizione.
Ma, in Tibet, ho incontrato di nuovo il tradimento degli ideali comunisti.
Da oltre mezzo secolo l’occupazione cinese sta distruggendo l’identità, la cultura e le tradizioni di questo popolo. Hanno portato alla morte un milione di tibetani e costretto all’esilio la loro guida spirituale e politica: il Quattordicesimo Dalai Lama.
Il mondo, troppo preso e interessato dalle ragioni del gigante cinese ha guardato con indifferenza alla tragedia tibetana e anche la sinistra democratica ha privilegiato la dialettica con il Partito Comunista Cinese ad una chiara ferma, inequivocabile, condanna dell’invasione del Tibet.
Non si è voluto capire che nessun pretesto di mercato poteva giustificare questo delitto e il silenzio di tutti noi.
Cosi il popolo tibetano è rimasto solo e inascoltato per decenni.
Sono state costruite strade, moderni aereoporti,una ferrovia che collega Pechino a Lhasa. I cinesi si vantano di aver modernizzato il paese facendolo uscire dal medioevo.
Ma il popolo del tetto del mondo non perdona all’invasore cinese la distruzione degli antichi monasteri durante la rivoluzione culturale e la colonizzazione economica e culturale che hanno imposto con la forza in questi cinquantanni.

lunedì 23 giugno 2008

ULTIMA ANTARTIDE - (prima di tornare a casa ho carpito il sorriso di un'amico e lasciato una promessa)


Chi ha letto il mio libro "Antartide,perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo" avrà capito che sono caduto vittima dell'incantesimo del continente ai confini del mondo.
Chiudevo il libro con un impegno e una promessa.
Nel mio viaggio ho preso coscienza che qui si trovano le ultime risorse naturali del pianeta. Alla regione dei ghiacci senza fine ho lasciato la promessa di agire per aiutarla a mettersi in salvo. Cercherò anch'io di diventare un testimone attivo a difesa di questo ambiente incontaminato. Il riscaldamento del pianeta e lo scioglimento dei ghiacci da una parte, l'aggressione dell'uomo con la ricerca del profitto dall'altra possono rompere l'incantesimo.
La sfida che abbiamo davanti è enorme ma ognuno di noi che ha amato e ama quest'ambiente cosi estremo può fare qualcosa.
L'obiettivo su cui stanno lavorando scienziati ed esploratori è quello di creare il più grande parco protetto del mondo. Un "PARCO DI GHIACCIO" grande come un continente che non sarà mai spartito e usato , perchè appartiene al futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti.



Chiedo agli amici che visitano il Blog di lasciare un commento e la loro adesione a questa iniziativa. Sarà mia cura trascriverle e inviarle. Anche dall'Italia possono arrivare alle Nazioni Unite tante richieste e testimonianze che possono aiutare questa decisione. (titobarbini)

giovedì 19 giugno 2008

VARANASI


Mia figlia e alcuni amici mi hanno confidato che, nella prossima estate, vorrebbero fare un viaggio in India. E' raro che un viaggiatore consigli di visitare un posto piuttosto che un'altro. Ognuno compie le sue scoperte da solo. Ma, per Varanasi, ( la vecchia Benares) faccio volentieri un'eccezione.

Nel bagaglio che tutti possediamo di immagini stereotipate dell'India, non mancano certo quelle dei pellegrini che si bagnano nel Gange e le pile funerarie per la cremazione dei corpi nelle scalinate che scendono al fiume sacro. Vi assicuro, in questo caso, le immagini che abbiamo in testa, sono poca cosa. Bisogna andarci! E' difficile anche raccontarla questa esperienza. Perdersi per le intricatissime strade ,sentire gli odori,mettere i piedi nel fango, toccare e farti toccare dai corpi trasparenti che popolano le rive del Gange.

Varanasi è l'esperienza che più di ogni altra,nella vita, ti mette di fronte all'altro. Al diverso da te e dalla tua spocchiosa cultura.

E' difficile non pensare alla morte mentre cammini per Varanasi. Ma per la prima volta il pensiero non si riversa sulla paura. Credo che non ci sia luogo al mondo dove la spiritualità e il pensiero della morte si compie con mille gesti simbolici. Mentre ero lì pensavo a una esperienza straordinaria, dopo alcuni giorni il coinvolgimento mi è parso totale. Varanasi è il posto dove ogni indù deve bagnarsi nell'acqua del Gange per purificarsi da tutti i peccati e conquistare il paradiso.Varanasi per tutti loro è soprattutto un buon posto per morire (naturalmente il più tardi possibile). Vi consiglio di camminare, all'alba e al tramonto, nella riva sinistra del fiume (la riva destra è impura). Camminare per chilometri, da una scalinata all'altra, per incontrare l'umanità. I rituali della vita e della morte si svolgono tutti qui in una perfetta simbiosi e qui perdono i loro inquietanti significati. Davvero emozionanti sono i luoghi dove avvengono le cremazioni pubbliche. Si può accedere, con i parenti, accanto alla catasta di legno profumato di sandalo e assistere alla cerimonia. I corpi, prima di essere cremati, vengono portati in giro in una barella di bambù e immersi nel Gange. Intorno si canta e si prega. L'odore acro del fumo e il riflesso rosso del fiume ti consegnano una riflessione,molto intima, non sulla morte ma sulla nostra paura della morte.

martedì 17 giugno 2008

Centocinquantamila "piccoli indiani"



Nel mio primo libro "Le nuvole non chiedono permesso" un lungo viaggio di cento giorni dalla Patagonia all'Alaska dedicai un capitolo a una strana storia che mi era capitato di incontrare a Vancouver nel gennaio del 2005. Mi fermai a parlare, in un piccolo centro di documentazione sulla storia degli indiani canadesi, con un giovane indiano il cui nome significava "Orso in piedi" che mi raccontò questa storia maledetta. Nessuno allora né parlava e tantomeno si voleva dar credito a una storia come questa. Leggo,su Repubblica di oggi, che il primo ministro canadese, in una solenne cerimonia,ha presentato le scuse del governo ai nativi per la politica di assimilazione seguita nei loro confronti. Rimasi sconvolto da quel racconto, pensavo che il Canada fosse uno dei posti migliori in cui vivere ma, in quel momento, tutto mi sembrava insopportabile.




" THOMAS Loutit ha passato otto anni in quella scuola. Otto anni in cui è stato obbligato a cancellare la sua identità culturale e etnica. Otto anni in cui ha subito violenze sessuali. Michael Cachagee aveva 4 anni quando venne strappato alla sua famiglia e portato in una delle tante scuole religiose fondate e sovvenzionate dallo Stato canadese dal 1870 al 1970. Con una sola missione: “cristianizzare e civilizzare” gli indigeni. L’obiettivo, nelle parole di un alto funzionario degli Affari Indiani del 1920, era quello di “distruggere l’indiano finché è bambino”.
Questa sorte in cento anni ha travolto 150 mila piccoli appartenenti ai gruppi etnici aborigeni Inuit, First Nations e Metis. Frammenti di vite spezzate a cui oggi il governo del Canada, per bocca del Primo ministro Stephen Harper, chiederà ufficialmente scusa. Non solo. Per 90 mila di loro, tra cui figurano sopravvissuti e discendenti, riceveranno un risarcimento miliardario, di 2 miliardi di dollari.
Una prima commissione governativa cha ha coinvolto tutte le parti in causa, comprese le comunità e diversi rappresentanti religiosi, ha concluso nel 1996 che il programma ha danneggiato in maniera irreversibile generazioni di aborigeni e ha distrutto la loro cultura. Il primo risultato del gruppo di lavoro è stato quello di fare chiudere i battenti all’ultima di quelle 130 scuole. “Ne abbiamo voluto fare parte - dice un portavoce ecclesiastico - perché volevamo dire la nostra. Non tutti hanno partecipato a quegli abusi”.
Che il vento sia cambiato si intuisce anche dalla dichiarazione del ministro degli Affari Indiani, quello attuale, Chuck Strahl: “E’ un rispettoso e sincero riconoscimento di un’estesa devastazione culturale, che ha compreso traumi fisici, abusi sessuali, e continua a perseguitare quelle generazioni anche oggi”. L’atto ha seguito di pochi mesi quello del governo australiano nei confronti degli Aborigeni. Ma il Canada è andato più in là, e oltre alle scuse ufficiali ha aggiunto un risarcimento economico.
A occuparsi del compenso sarà una commissione creata con parte dei 4,9 miliardi di dollari, cifra più alta della storia del Paese, raggiunta al termine di un accordo tra governo, confessioni religiose e rappresentanti indigeni, al termine di una class action promossa dai nativi. Riceveranno un risarcimento tutti gli studenti delle scuole incriminate, mentre un’ulteriore somma andrà alle vittime di abusi sessuali. A coordinare la commissione sarà Harry LaForme, primo e unico aborigeno a essere nominato giudice di Corte di Appello. LaForme viaggerà attraverso il Paese per ascoltare storie di studenti, insegnanti e testimoni e per educare i canadesi sul “lato oscuro della storia del Paese”.
Stasera il Canada si fermerà. Maxi-schermi sono stati allestiti in molte città per seguire il discorso di riconciliazione del primo ministro. Il Parlamento fermerà tutti i lavori. C’è grossa attesa anche tra le associazioni dei nativi, che oggi sono più di un milione. Alcuni di loro, soprattutto Inuit (quelli che un tempo venivano chiamati eschimesi, termine oggi considerato dispregiativo) e Metis (discendenti di famiglie indiane incrociate con europei), protesteranno perché i risarcimenti vengano allargati alle persone escluse perché le loro scuole non fanno parte della “lista nera”.
Le comunità indigene puntano il dito verso quel programma di colonizzazione, non solo culturale, e lo ritengono alla radice degli alti tassi di suicidi (11 volte superiori tra gli Inuit e i First Nations rispetto agli altri canadesi) e di dipendenze da droghe e alcool che affliggono le loro comunità. Nonostante le minoranze etniche siano trattate relativamente bene in Canada, rimangono la parte più povera e svantaggiata del Paese.
Cachagee ha passato dodici anni e mezzo in quelle scuole, dal 1944. “Sono stato picchiato, messo sotto l’acqua bollente, mi hanno obbligato a mangiare cibo andato a male, mi hanno chiamato in tutti i modi possibili - ricorda - ho sofferto grande rabbia e dolore. “Phil Fontaine, oggi leader della comunità dei First Nations, gruppo etnico discendente da varie tribù indiane, è stato uno dei tanti a subire violenze sessuali e uno dei primi a denunciarle: “Hanno inflitto qualsiasi tipo di abuso su bambini innocenti, ci sono migliaia di queste storie. Questo è un giorno storico, è importante che queste vicende si conoscano”. E forse, dice qualcuno, questo giudizio è più importante per i carnefici che per le vittime."

sabato 14 giugno 2008

LADRI DI BICICLETTE (Corriere di Arezzo 14/06/08)



Da alcune settimane ho iniziato una collaborazione con il quotidiano aretino. Ogni Sabato una opinione sui temi e i problemi della città. Ho pensato di riportare qui soltanto gli articoli che fanno riferimento a questioni più generali e che possono suscitare un confronto con gli amici che visitano il mio blog.


Ladri di Biciclette

(a proposito di Immigrazione e sicurezza)

No, non voglio parlare del bellissimo film di Vittorio De Sica che ha inaugurato nell’immediato dopoguerra il neorealismo italiano.
Il fatto è che nei giorni scorsi, in pieno centro e in un’ora di punta, mi hanno rubato la mia terza bicicletta.
Un conoscente che passava di lì, cercando di consolarmi per il furto subito, ha iniziato a inveire senza freni contro gli immigrati. Non so chi abbia rubato la bicicletta. Quello che mi ha colpito e non accetto è l’immediata associazione tra il ladro e l’immigrato.
Cosa sta succedendo nel nostro paese?
C’è qualcosa di preoccupante, di veramente preoccupante, nelle parole che ogni giorno e in ogni occasione e da ogni tribuna vengono scagliate, come pietre, contro l’immigrazione di ogni colore e provenienza.
C’è una vera e propria gara tra i governanti di oggi e i grandi mezzi di informazione a chi tambureggia più forte. Molti si sentono autorizzati a mettere il cinturone e a lucidare la loro stella di sceriffo. Per fortuna, c’è chi va contro corrente.
La Provincia di Arezzo e l’Associazione Donne Insieme di Arezzo hanno, nei giorni scorsi, in un interessante e puntuale convegno sull’immigrazione ( detta di seconda generazione) posto,a noi tutti, una domanda.
Posso provare a rifare la domanda con parole mie e cercare di esagerarla? Esagero. Che cosa dovrebbe fare, secondo noi, un giovane immigrato nato o cresciuto ad Arezzo (ormai sono migliaia) di fronte all’ondata generalizzata contro gli immigrati e che fa di ogni erba un fascio?
Che scelte avrebbe?
Difficilmente, al suo posto, potrei ancora sperare di avere un futuro, una cittadinanza, una nuova patria. Sarei stanco di invocare senza ascolto il diritto a essere, in tutto e per tutto, un cittadino come gli altri. Potrei continuare ad abitare in questa città, contentandomi di avere un lavoro che magari altri non vogliono fare , di mandare i miei figli a scuola, di un tetto insicuro. Ma anche cosi mi sentirei un ingombro, intruso e anche umiliato.
Avverto nella pelle l’obiezione che molti mi faranno :
Può darsi, ma i fatti parlano d’altro. La continua, assordante sovrapposizione fra questione migratoria e ordine pubblico nelle parole e nelle narrative di tanti imprenditori morali e politici dell’insicurezza, obbliga i figli dell’immigrazione a convivere con un pensiero comune che legge il migrante come ospite richiesto ma non benvenuto.
Da quando è ripresa questa ventata xenofoba nel paese mi sforzo di leggere con più attenzione i giornali o ascoltare le televisioni locali . Spero di ricavarne dei chiarimenti, lo dico senza ironia, rispetto a questa campagna sulla sicurezza in città. Telecamere nelle strade, ronde notturne dei vigili, carabinieri, guardie di finanza. Forse va tutto bene, ma siamo sicuri di non associare tutto questo bisogno improvviso di sicurezza, agli immigrati ?
Per fortuna la nostra città ha dato, in questi anni, un contributo alto (merito del volontariato, delle istituzioni e degli stessi immigrati) ai processi d’inserimento e d’integrazione, nel lavoro e nella scuola, dei cittadini extracomunitari.
Il problema potrebbe non riguardare Arezzo?
Cerchiamo allora di non implementare questo clima assurdo che, in alcune città, ha portato all’aggressione di cittadini per la loro nazionalità o etnia annunciando un serio rischio di rinascente razzismo.
Percepire il bisogno di sicurezza dei cittadini è giusto, dare risposte adeguate alla criminalità e alla violenza nelle strade è sacrosanto. Qualcuno ha detto che la sicurezza non è di destra ne di sinistra ma un diritto inalienabile dei cittadini. Sono d’accordo. I fenomeni di insicurezza, di impoverimento, di precarietà nel lavoro riguardano le persone, tutte le persone, e possono generare paura.
La paura verso il diverso e verso l’emarginato diventa la risposta più facile di fronte alla difficoltà di contrastare l’insopportabile clima di “egoismo sociale”che attraversa il nostro paese. Abbiamo fatto dei Rom il nuovo capro espiatorio, stiamo criminalizzando i poveri del mondo e si sta introducendo una normativa dove, clandestino, è uguale a criminale.
Si parla d’immigrazione clandestina, beninteso, perché l’extracomunitario in regola con le impronte viene invece accolto fraternamente nei recinti di filo spinato nei cantieri edili al nero, o sottopagati nelle aziende del Nord-Est e nei campi rossi di pomodori del centro o del sud, nei quartieri residenziali dove porta a spasso il vecchietto.
Cerchiamo di uscire da questa spirale e costruiamo, ognuno di noi, nel nostro piccolo e concretamente una nuova etica dell’accoglienza. Che futuro ha un popolo che non si ricorda che è stato fino a ieri un popolo di migranti. Si tratta di decine di milioni di italiani che oggi vivono all’estero. I nostri migranti sono stati trattati male un po’ ovunque e hanno dovuto lottare per i loro diritti. Perché ora cediamo alla tentazione di trattare allo stesso modo gli immigrati in mezzo a noi. Cosa ci ha fatto perdere questa memoria in tempi cosi brevi?
Si, c’è qualcosa di preoccupante in quello che sta succedendo.
Tito Barbini

domenica 8 giugno 2008

Croce del Sud



Nella piccolissima isola di Wellington c’è un villaggio che si chiama Porto Eden . E’ incastonato tra gli infiniti ghiacciai del “campo di gelo sud” e le lingue dell’oceano Pacifico che lambiscono le Ande lungo i canali della rotta cilena andando giù verso lo Stretto di Magellano.
Si arriva a scoprirlo dopo un lungo navigare attraverso i fiordi patagonici con un cargo per il trasporto delle merci che accoglie,assieme agli autisti degli autotreni , anche i viaggiatori solitari .
Inbocco un sentiero che porta in alto verso un piccolo osservatorio del cielo .
E’ messo li, per esplorare le stelle nel silenzio e nel buio della notte australe, da un gruppo di giovani ricercatori dell’università di Punta Arenas . Uno di loro,si chiama Carlos , mi fa dono di una leggera e fantastica descrizione della più piccola e affascinante costellazione dell’universo conosciuto : la Croce del Sud .
Sono emozionato quando torno nel vecchio cargo che riprende lento la sua rotta verso il Sud .
E infatti si prepara una notte bellisima con un cielo luminoso dove si accendono, a poco a poco milioni di stelle .
La croce contiene quattro stelle luminose disposte a quadrilatero: la magellanica è la più vicina al polo e poi la mimosa di colore azzurro , la rubidea chiamata cosi per il suo colore rosso e la palida perchè meno brillante delle altre .
C’è poi un altra piccola stellina che non appartiene ai bracci della croce ma fa parte della costellazione e per questo si chiama intromedita.
Vado nella mia cuccetta e porto con me le poesie di Neruda e cerco l’ode alla Croce del Sud .
Gli occhiali si appannano e gli occhi si inumidiscono quando copio sul mio quaderno alcuni versi di una delle più belle poesie d’amore del poeta cileno :

In un istante
si spensero tutti
gli occhi
della notte
e solo vidi inchiodate
nel cielo solitario
quattro pietre azzurre
quattro pietre gelate .

E dissi
prendendo
la mia lira di poeta
davanti al vento oceanico,
fra le dentate dell’onda :
Croce del Sud,derelitta nave
della mia patria,
spilla sul petto ,
della turgida notte ,
costellazione marina ,
luce
delle case povere ,
errante lucerna,rombo
di pioggia e di velluto,
capriata dell’altezza,
farfalla,
posa le quattro labbra
sulla mia fronte
e portami
nel tuo notturno sogno.


E non mi rispose
La Croce del Sud :
prosegui, prosegui il suo viaggio
spazzata
dal vento.

Lasciai la lira allora
da una parte ,
sulla strada
e abbracciai la mia amata ;
e mentre avvicinavo
i miei occhi ai suoi occhi ,
vidi in essi ,
nel loro cielo
quattro punte
di diamante infuocato.


La notte e la sua nave
nel suo amore
palpitavano
e baciai ad una ad una
le sue stelle .

Paolo Ciampi recensione



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Antartide
Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo
Di Tito Barbini
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Un piccolo gioiello che si stacca di gran lunga dalla media della dilagante letteratura di viaggio. Tito Barbini va molto lontano, ma senza la presunzione del grande viaggiatore, meglio con l'umiltà che è virtù del grande viaggiatore, che sa che in sostanza non contano i chilometri, ma la capacità di esplorare la geografia dell'anima. In un viaggio, alla fine fine, conta non cosa vedi, ma come il movimento ti cambia dentro. Riportandoti con il ritorno a una nuova vita. Bello, intenso, essenziale

giovedì 5 giugno 2008

Penso a un nuovo libro ... lasciami un tuo commento


Penso di scrivere un nuovo libro. Il titolo? Penso a qualcosa di questo genere: " Il fiume Mekong, fra la tragedia e l'incanto"
Qualcuno ha scritto che non si vive nel fiume Mekong, ma nella sua descrizione.Proverò a riordinare le diverse esperienze che ho vissuto per il fatto di aver compiuto questo viaggio in due tempi separati tra loro, a distanza di un anno l’uno dall’altro.Una sola sarà la storia, perché le emozioni non hanno avuto interruzioni. A distanza di tempo penso che sia stato il viaggio più difficile, certamente quello che mi ha contagiato di più nella ricerca della verità su quello che resta delle mie appartenenze ideologiche.Una sorta di naufragio delle utopie, in un fiume rosso, di fango e di sangue. E come ad ogni naufrago si fa strada la terra. Ho camminato sui sentieri della vecchia Indocina, quelli che dal fiume portano alle città e ai villaggi dell’interno. Su, sempre più su dalle regioni del sud est asiatico per arrivare oltre, fino al tetto del mondo.Questo libro, oltre che un viaggio è un’espiazione. L’espiazione appartiene a chi scrive, una sottile linea d’ombra che finalmente mi sono deciso ad attraversare, il viaggio, invece, vorrei che appartenesse a tutti. Mi ha accompagnato ovunque il sorriso misterioso e arcano dei Buddha, presenza assidua e insistente. Affiora da ogni pietra scolpita nei templi e nelle facce dei coraggiosi monaci. In quelli dormienti di Angkor, nella giungla cambogiana, o quelli in carne e ossa e pronti alla lotta che ho incontrato nelle città birmane o negli altipiani del Tibet.

commento di andrea mulas "girocorto festival "

E' sicuramente un progetto interessante che prosegue l'invidiata esperienza di Barbini di esplorare "nuovi mondi". E' vero, questo viaggio è anche il "naufragio delle utopie", ma per coloro che hanno vissuto gli anni delle contrapposte ideologie. Per i più giovani come me, rappresenta un'indicazione, un utile suggerimento di quello che è stato e di ciò che purtroppo continua ad essere in alcune parti del mondo. Credo che anche questa volta Barbini ci farà scoprire insieme a lui le vene più nascoste dei mondi che attraversa. Buon viaggio!

Andrea Mulas http://punto-gi.blogspot.com/

Commento di Anna Maspero

ciao Tito, bello sentirti sempre in fase creativa! Difficile dare consigli, un libro nasce dentro. Terzani a un giornalista aveva risposto che per fare un libro bisogna essere incinta, e in effetti i libri sono proprio come dei figli. Per me il parto e' lungo, anche un po' sofferto. E poi mi sento in obbligo di accomapagnarli... O sono loro che accompagnano me? Con la scusa di promuovere il mio libro A come Avventura sono sempre in giro... ritrovo vecchi amici e ne scoprodi nuovi. Insomma anche l'accudimento del libro costa fatica, ma e' capace di farti scoprire luoghi, eventi e soprattutto persone. Buona strada, Tito, a te,ai tuoi libri e ora anche a questo tuo nuovissimo blog!
Anna

mercoledì 4 giugno 2008

ISOLA DI PASQUA, triste e sola


Sola, sola in mezzo al più grande oceano del mondo. Sin da quando
ero un bambino il mistero dell'Isola di Pasqua aveva colpito la mia
fantasia.

Per dare un'idea di questo isolamento basta dire che l'isola è una grande roccia vulcanica spuntata dall'oceano durante un'eruzione nelle profondità del mare.

E' lontana da tutto migliaia e migliaia di chilometri e la terra abitata più vicina (2000 km) e' l'isoletta di Pitcaim uno scoglio famoso perchè li vivono qualche decina di discendenti degli ammutinati delBounty. Si chiama Isola di Pasqua perchè un navigatore (credo olandese) sbarcò in quest'isola nel giorno di Pasqua del 1722. Il suo vero no me è Rapa Nui: isola di roccia. Magnifica solitudine e triste desolazione dell'isola di Pasqua! Spazi liberi completamente spogli dove corrono liberamente cavalli selvaggi e nere scogliere infrante violentemente dalle onde oceaniche.

Qua e là verdi coni vulcanici con crateri che nascondono meravigliose e colorate paludi.

Forse nel 400 d.c approdarono qui alcuni migranti provenient dalla poilinesia o forse, chissà, dalla costa latino americana.

Di loro (si racconta di un popolo bellissimo) oggi restano pochi abitanti sbiaditi e asserviti all'industria turistica. Ma la loro storia vale la pena raccontareperchè ci insegna qualcosa. E' un popolo che è riuscito adautodistruggersi!

Storia maledetta la sua.

Rapa Nui era un'sola rigogliosa tutta coperta di verdi palme con lussureggianti foreste piene di animali , soprattutto uccelli.
Il suolo era vulcanico, fertile e ricco di acqua dolce. Insomma, un paradiso terrestre. La popolazione cominciò a disboscare per avere legna da ar esoprattutto per avere più superfici agrcole. Ma il consumo degli alberi divenne eccessivo per trasportare i "MOAI" (le grandi statue
di pietra)il quale unito al disboscamento agricolo portò nel giro di un millennio alla scomparsa di tutti gli alberi.

Le conseguenze furono disastrose: Le pioggieerosero il terreno e quindi distrussero l'agricoltura . L'erosione portò conse la siccita e tutti i fiumi si essiccarono. La mancanza di legno per costruire le canoe impedi la pesca e sopratutto rese prigionieri dell'isola i 9000 abitanti. Il resto ( nei secoli recenti ) lo ha fatto lo schiavismoe le malattie portate dall'uomo bianco. Restano oggi, maestosi e gioviali, i grandi Moai, sparsi in tutta l'isola sono la testimonianza dellatormentata storia di un popolo che è riuscito a rubare il proprio futuro.

RITORNO IN PATAGONIA


La Patagonia è un luogo fisico o un luogo immaginario? Forse, l'uno e
l'altro insieme. Per me è un'utopia. Penso che il significato di
utopia sia quello di un "luogo che non esiste".
Nella mia fantasia è una dimensione immaginaria del pensiero e una
speranza di libertà anche quando riconquista, come in questo mio
ritorno, i confini del luogo fisico.
Forte e solitaria questa terra dagli spazi infiniti può diventare un
paesaggio dell'anima. Forse dipende dal fatto che qui non esistono
orizzonti chiusi e il cielo finisce lontano lontano e tutto sfuma
all'infinito. Perchè mi coinvolge cosi tanto?
"Cosas patagònas" è un modo di dire che qui indica una cosa magica
che può accadere a chiunque e in qualsiasi momento. Dipende dal
silenzio e dalla solitudine. Forse questo e non altro sta alla base
del mio ritorno in Patagonia senza uno scopo apparentemente
ragionevole. Persino i vissuti personali della mia imfanzia, che ho ricordato nel racconto scritto qui in Patagonia,ho il sospetto che possano rivelarsi come 'cosas patagonas'

martedì 3 giugno 2008

CAMBOGIA : BANALITA' DEL MALE


BANALITA’ DEL MALE,

ho appena letto FANTASMI (dispacci dalla Cambogia) di TizianoTerzani. Il libro mi ha riportato con la mente al mio viaggio di alcuni mesi. Il genocidio compiuto da PolPot lascia, ancora oggi, cicatrici profonde in una terra bellissima.


Esiste una banalità del male?
Chissà per quale insondabile ragione, da quando sono tornato dalla Cambogia, continuo a pormi questa domanda. Si è fatta più insistente dopo che ho visto il campo di sterminio di Choeung Ek e la famigerata prigione S21.
Mi torna alla mente il libro di Hannah Arendt che negli anni sessanta, dopo il processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, suscitò un dibattito accesissimo proprio intorno al concetto di “banalità”.
Il titolo del saggio ‘La banalità del male’ rimanda proprio alla normalità di coloro che compiono i peggiori delitti contro l’umanità. Un libro scomodo che poneva domande che non avremmo mai voluto porci e dava delle risposte non certo rassicuranti.
La giornalista che aveva assistito, come inviata del suo giornale, al processo contro il criminale nazista, riferendosi alla pratica dello sterminio di massa ha cosi definito la natura profonda dell’inclinazione omicida di massa.
Il Male che ho incontrato in Cambogia non riesco a spiegarmelo solo con la natura ideologica, totalitaria e cieca che muoveva la folle violenza dei Khmer Rossi. Non basta parlare dei morti, delle devastazioni, degli orrori che la guerra, anche quella americana in Vietnam, aveva seminato in tutto il sud est asiatico.
Il Male che incontro appare anche a me “banale” e perciò tanto più terribile perchè quei ragazzi con la sciarpa rossa che vedo sorridere nelle foto assieme alle loro vittime si somigliano e ci somigliano.
Oggi in Cambogia si tenta la riconciliazione, solo quattro persone sono in carcere in attesa di un processo di un tribunale internazionale che non riesce a muovere i primi passi.
Migliaia di Khmer Rossi sono tornati a casa, popolano le città e i villaggi, vivono accanto ai parenti delle loro vittime e anche loro sorridono ai turisti.




TITO BARBINI SULLA BIRMANIA E I SUOI MONACI RIBELLI
di Tito Barbini
A causa di un terribile ciclone almeno 100.000 birmani sono morti. Ma in Birmania non c’è solo un disastro naturale. La corrotta e brutale giunta militare non ha avvertito la popolazione non l’ha fatta sfollare e ha bloccato le comunicazioni. Dobbiamo aiutare il popolo birmano ricercando in internet l’efficace rete di aiuto dei monasteri (per dare un aiuto cliccate qui). Sono stato in Birmania nell’estate del 2007 pochi giorni prima che esplodesse la rivolta dei monaci. A loro dedico questi miei appunti di allora.
Eccoli i monaci ribelli.

Irriducibili sovvertitori del regime militare che da quarant’anni soffoca la Birmania.
Non lo nascondo: ho un debole per loro.
Gente straordinaria, capace di scuoterti dall’indifferenza e donarti sempre baleni di serenità.
Scalzi, con la testa rasata e le tonache rosse mi vengono incontro sereni e festanti unendo le mani in segno di saluto e di preghiera. Molti di loro sono ancora dei ragazzini. Vengono giù dagli smisurati scaloni della Pagoda Shwedagon, il cuore spirituale della Birmania e sciamano verso il centro della città. Sono loro i protagonisti di questa rivoluzione democratica che cresce ogni giorno e ogni giorno è repressa con ferocia dagli anacronistici militari che come tiranni fuori dal tempo dai loro palazzi lontani ordinano il massacro. continua...

LETTERA DAL TIBET - di Tito Barbini
Sul tetto del mondo
di TITO BARBINI
Quando ci penso, provo gratitudine nei confronti di una vita che mi ha concesso questa fortuna: sono capitato in tanti posti meravigliosi di questo nostro mondo che ormai faccio fatica a contarli, o comunque a rammentarli tutti con l’intensità che ciascuno di essi meriterebbe.
Ognuno di questi luoghi è stato per me un dono. Un dono atteso, un dono che era nell’aria, nella maggior parte dei casi.
Più raramente la meraviglia è andata oltre ogni aspettativa. Come ora, qui: tra tutti, Paolo, questo è davvero il dono più inaspettato.
Ho colto al volo un’altra occasione e da ieri sono in Tibet: basta pronunciarlo questo nome – Tibet – e dentro ti si scuote qualcosa.
Il senso di sorpresa che provo, è chiaro, ha poco a che vedere con la casualità di questa destinazione: questa, lo sai bene, non è affatto una novità.
A pensarci bene, poi, non è nemmeno la distanza tra il Tibet che mi si spalanca davanti e le mie aspettative, comunque alte. Semmai a prendermi in contropiede è una coincidenza, tra la realtà e quello che mi illudo di aver sempre sognato.
Ecco, proprio così. Qui in Tibet sto sperimentando sensazioni confuse, che mi scivolano via piacevolmente come una brezza primaverile. Fossi un ragazzino, potrei riconoscerle come i sintomi di una bella cotta. Meglio, di un colpo di fulmine.
Qualcosa del genere mi è successo nelle distese della Patagonia o al cospetto degli sterminati laghi salati dell’altipiano boliviano. E ora in Tibet: con la stessa meraviglia per la mia capacità di meravigliarmi ancora. Ma anche con qualcosa di diverso: un crampo allo stomaco per qualcosa che si sta irrimediabilmente perdendo.
Gli amori più tenaci, del resto, sono sempre tinti di nostalgia. E figurarsi per il Tibet, dove a ogni momento non sai se inchinarti a una bellezza che viene da lontano o recriminare sulle offese del presente.
Sono sul tetto del mondo: e chissà quante volte hai sentito questa espressione. È banale, ma tanto non è che ci siano molte parole per rendere conto di emozioni come queste.
continua...

"Antartide" recensione del Prof. Nicola Scaffai Università di Siena



È stato osservato recentemente che la narrativa italiana contemporanea soffre di un male diffuso, cioè il difetto di esperienza. Non tecnica, non di scrittura nel senso stilistico; l’inesperienza riguarda proprio il limite alla conoscenza del mondo, della storia e degli effetti che i luoghi, l’epoca e le grandi dinamiche sociali e culturali hanno sull’uomo. La maggior parte degli scrittori si concentra sulla speculazione esistenziale, senza attingere all’esperienza vitale. Da un lato, questa è la conseguenza di un processo che ha un lungo corso nel Novecento, cioè la rarefazione e la deriva del soggetto, dell’“autorità dell’autore” e delle sue prospettive sulla realtà che egli narra, sulla stessa possibilità – direi – di narrare e interpretare la realtà. Dall’altro, l’indebolimento dell’esperienza è un fenomeno che ha raggiunto il culmine nei nostri anni e alle nostre latitudini, per cui l’esperienza è indiretta, non ci coinvolge fisicamente ma solo attraverso il filtro dei mezzi di comunicazione, della virtualità. Antartide di Tito Barbini è invece un libro sulla riconquista dell’esperienza (che non a caso è una delle parole ricorrenti, un Leitmotiv), o sull’esperienza ritrovata se vogliamo riprendere in chiave proustiana il sottotitolo di questo diario: “perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo”. continua...
Barbini.Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo.© Polistampa 2008,cm 12x17, pp. 176, ill. col., br., € 8,00

ANTARTIDE, PERDERSI E RITROVARSI ALLA FINE DEL MONDO


March 28th, 2008 at 6:37 pm
Antartide, perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo
in: http://acomeavventura.com/
“Antartide, perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo”
Di Tito Barbini, Edizioni Polistampa 2008 - €.8,00

Nel suo primo libro di viaggio, ”Anche le nuvole chiedono il permesso“, Tito Barbini raccontava l’attraversamento delle Americhe da sud a nord, una sorta di pellegrinaggio solitario in bilico fra i sogni di ieri e la realtà dell’oggi. In questo secondo viaggio, che del precedente è l’ideale continuazione, si muove invece verso l’estremo sud, l’Antartide, quel continente disabitato capace di sorprendere, stupire e sedurre gli ancora scarsi viaggiatori che affrontano la difficile traversata del Passaggio di Drake. In questo libro, più ancora che nel precedente, le lunghe giornate luminose dell’estate australe unite ai silenzi, alla solitudine e alla rarefazione assoluta dei paesaggi antartici, offrono all’autore l’occasione di un viaggio interiore, oltre che nei luoghi attraversati. La navigazione verso sud a bordo di un rompighiaccio dell’ex marina sovietica, diventa così un viaggio di ricerca dentro se stesso, in un fitto dialogo con autori e i libri amati.
Tito Barbini guarda indietro al naufragio delle utopie politiche in cui tanto impegno aveva investito: con loro se ne è andata non solo la speranza, ma anche la passione e l’intensità di quegli anni e solo rimangono un pugno di amicizie. Ripensa all’amore che la vita gli ha regalato e tolto, perché “il tempo… conduce, quasi sempre, all’incontro con la felicità nel momento sbagliato“.

continua...

Anna Maspero