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martedì 23 dicembre 2008

ALLA FINE DEL MONDO




Eccola la Terra del Fuoco, l’ultimo lembo di mondo abitato prima della bianca solitudine dell’Antartide. Un nome strano, vero?
Sembra che questo nome venga direttamente da Magellano che attraversando lo stretto che porterà il suo nome vide delle colonne di fumo provenire dagli accampamenti degli indios Yamana. Decise di chiamarla Terra del Fumo ma qualche tempo dopo un re spagnolo pensò che dove c’è il fumo non manca il fuoco e allora la ribattezzò Terra del Fuoco. Altri sostengono che la regione abbia preso il nome dal colore rosso delle sue montagne.
Quello che mi sembra certo che da queste parti le cose si chiamano in modo diverso da quello che sono veramente. Terra del fuoco per indicare una terra ghiacciata e spazzata dai gelidi venti antartici, oceano Pacifico per indicare un mare che pacifico non è quasi mai, Capo Horn, il mitico tratto di mare dalle mille tempeste e dai mille naufragi che prende il nome da una piccolissima e tranquilla cittadina di immobile mare olandese perché olandese era il capitano della nave che gli diede il nome.
Mi chiedo se questa faccenda dei nomi possa valere anche per Arezzo. Non mi riferisco naturalmente alla sua toponomastica, ma per esempio al mondo della sua politica, peraltro, temo non molto diverso da quello di tante altre città. Quante parole si usano a sproposito, quante parole diventano ora involucri vuoti ora contenitori di significati esattamente agli antipodi di quanto si intende. Ci sono parole che sono delle sorte di passe-partout, buone per tutte le stagioni e tutti gli orientamenti politici, parole che sembrano giustificarsi per se stesse e che comunque ci devono essere sempre e comunque: parole come sviluppo, come legalità, come democrazia, su cui tutti sono d'accordo, ma a cui poi, per non farle suonare vuote, bisognerebbe attaccare qualche altro concetto. Per dire, c'è sviluppo e sviluppo: e credo che ad Arezzo questo si sia dovuto imparare anche dal punto di vista delle grandi questioni urbanistiche e strutturali.
La capitale, si fa per dire, della Terra del Fuoco è Ushuaia. La città più australe del mondo. Non ci crederete ma, anche questa volta, ho incontrato un gruppo di aretini in vacanza. Ed è sempre un'emozione, ritrovarsi un pezzo di casa in una terra così lontana.
Ormai è di moda andare a Ushuaia farsi fotografare sotto il cartello con la scritta “fin del mundo” e tornare nella nave da crociera o negli alberghi a quattro stelle. Ormai non c’è pacchetto turistico in America Latina che non preveda un salto a Ushuaia. Peccato che anche qui prevalga questa mania del “mordi e fuggi”.
Eppure è una città che ha un grande fascino. I dintorni sono il luogo ideale per esplorare parchi e sentieri non battuti lungo la cordigliera andina, oppure per fare un giro in barca e ammirare ovunque leoni marini, cormorani, elefanti marini e pinguini in piena libertà. E poi c’è da vedere il Bagno Penale.
Quello che è stato una delle carceri più famose e dure del mondo oggi è un museo marittimo. Nelle piccole celle dei terribili bracci gelati si possono trovare le storie maledette di alcuni galeotti celebri per le loro gesta criminali tra cui alcuni italiani. Nel bagno penale soggiornarono anche prigionieri politici relegati alla fine del mondo da governi illiberali e dalle dittature che hanno, in fasi alterne, segnato l’Argentina.
Ma la cosa che incuriosisce di più e che notano in pochi è la Capsula del Tempo. E’ una strana piramide collocata nella piazzetta davanti al porto e proprio davanti alla Oficina Antartica, il posto dove si compra il biglietto per andare con il rompighiaccio in Antartide.
Questa piramide in cemento armato contiene sei dischi video laser e le copie delle trasmissioni televisive del 1992 e non sarà aperta che nel 2492. Il tutto, presumo, destinato agli abitanti del futuro perché sappiano come si viveva cinquecento anni prima.
Chissà, sempre se il pianeta sarà ancora abitato e avrà resistito allo scioglimento dei ghiacci cosa diranno le future generazioni. Sicuramente si faranno un sacco di risate.
E l'indolenza di questo pomeriggio alla “fine del mondo” mi porta davvero lontano con le mie fantasie. Ancora una volta l'immaginazione mi riporta a casa, a quindicimila chilometri di distanza. E penso a una Capsula del Tempo ad Arezzo: chissà, magari potrebbe contenere i telegiornali delle nostre emittenti locali, i microfilm delle pagine di cronaca dei nostri giornali. Raccogliere insomma tutti i litigi, le polemiche, le proposte, le affermazioni e le smentite di questi nostri giorni, nell'anno di grazia 2008.

E non dico di tenere tutto sigillato per mezzo millennio. Mi sa che basterebbe anche molto meno, magari un solo secolo. E sarebbe davvero divertente poter sapere oggi cosa di noi penseranno i nostri posteri. Cosa di tutto questo che a noi oggi sembra così importante, decisivo, irrinunciabile.


(tito barbini , Corriere di Arezzo Sabato 20 Dicembre 2008)

martedì 9 dicembre 2008

Dalla Patagonia


UNITED COLORS E INDIANI MAPUCHE

Ancora una volta scrivo queste righe da molto lontano. Sto scendendo il grande continente americano, puntando verso sud, verso le terre che mi piace considerare alla fine del mondo. Scrivo in un momento di sosta in questo mio cammino sulla Carrettera australe, questa interminabile striscia di asfalto ricca di infiniti colori e odori. Il vento del Pacifico si infrange sulle Ande e avvolge tutto quello che incontra. E' una sensazione bellissima.
Però più mi perdo in queste emozioni e più torno a riflettere sulle infinite relazioni che uniscono terre e realtà del mondo. E c'è sempre qualcosa che, sia più o meno visibile, più o meno scontato, mi riporta comunque all'Italia.
Per esempio, questa. Nel mio primo viaggio nella Patagonia cilena e argentina ho avuto la fortuna di conoscere alcuni membri della comunità Mapuche.
Avevo letto da qualche parte che almeno cinquemila comunità indigene rischiano di scomparire con le loro identità culturali e le loro conoscenze. Sapevo degli Adivasi in India o dei Pigmei in Africa, dei popoli siberiani in Russia e, naturalmente, degli indiani d’America. Però non conoscevo la realtà dei Mapuche: un popolo che conta un milione di persone in Cile e forse un altro mezzo milione in Argentina.
E cosi ogni volto che torno in Patagonia mi fermo a Esquel, nella provincia del Chubut, per incontrare Rosa e Attilio Curinonco. La loro storia è straordinaria, vale la pena di raccontarla.
Va subito detto che i Mapuche sono i più poveri ed emarginati tra quanti vivono in Argentina. Da molti anni conducono una lotta e una sacrosanta protesta contro alcune multinazionali. In cima alla lista c’è la United Colors di Luciano Benetton. Le accuse che i Mapuche rivolgono al marchio italiano sono pesanti. Benetton ha acquistato dai governi dell’Argentina e del Cile centinaia di migliaia di ettari, forse un milione, di terra.
Per gli indios sono i luoghi dove sono vissuti e morti i loro antenati, ma oggi, su questo grande latifondo, pascolano più di mezzo milione di pecore della famiglia Benetton. Oggi i Mapuche, che in queste terre hanno sempre vissuto di pastorizia, non possono più disporre né dei pascoli né dell’acqua. Cancelli e recinti sono ormai ovunque. E se trovano lavoro negli allevamenti il minimo che si possa dire è che è sono sottopagati.
Un discorso a parte meriterebbero altre multinazionali, come la Shell e la Mitsubischi, pure loro presenti con ambiziosi progetti di sfruttamento energetico.
In una sola di queste valli, quella del Bio Bio, saranno cancellati migliaia di ettari di foreste e costruite sei nuove centrali. Per alimentarle sarà innalzata una grande diga, che molti scienziati reputano una bomba ecologica, piazzata proprio al centro di uno degli ecosistemi più ricchi dell’America meridionale. Pensare che questi boschi di auracaria sono il regno di innumerevoli specie protette. Puma, gatti selvatici, uccelli rapaci, qui hanno vissuto al riparo dall’avidità e dalla capacità distruttiva dell’uomo.
Cosa succederà domani? Per i Mapuche la risposta è semplice: tutto questo produrrà una ulteriore frattura nel rapporto ancestrale con il loro territorio.
Ma torniamo alla famiglia Curinonco e al loro rapporto con Benetton.
La storia prende lo spunto da una strana sentenza emessa da Tribunale della provincia di Chubut, in Patagonia. Le parti in causa erano il cittadino italiano Luciano Benetton e i coniugi mapuche Attilio e Rosa Curinonco. Il tribunale, era prevedibile, ha dato ragione al primo.
La “ragione” di chi è più potente ha prevalso sulle ragioni di indigeni che, pur senza lo straccio di un documento, rivendicavano il piccolo pezzo di terra dei loro padri da cui erano stati cacciati. Oggi, a distanza di più di quattro anni dopo lo sfratto, quella terra è ancora disabitata e inutilizzata.
Sfrattati dalla loro terra ,sradicati e soli, i coniugi Curinonco continuano a chiedere giustizia. Attendono ancora che qualcuno li ascolti.
C'è anche un pezzo di Italia, anche in questa storia. E noi cosa possiamo fare, per i mapuche?


(Tito Barbini Corriere di Arezzo Sabato 6 Dicembre 2008)