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lunedì 26 ottobre 2009

I giorni del riso e della pioggia




L’opera:
Dal Vietnam al Tibet, dal delta del Mekong alle sue lontane sorgenti. Su questo itinerario reale se ne dipanerà un
altro, non meno impegnativo e complesso, che porterà l’autore protagonista a ripercorrere mentalmente la sua
vita a ritroso, proprio come sta facendo col grande fiume. È tipico di Barbini condurre ogni viaggio sul doppio
binario del presente e del passato, usando i posti in cui si trova come porte temporali per i luoghi della propria
anima. Dopo l’ex blocco comunista di Caduti dal Muro, spunto di riflessioni su ideali e realtà politiche, lo scrittore
toscano torna a percorrere e a scrivere dell’Asia, e questa volta lo fa navigando lungo uno dei suoi fiumi più
importanti, che taglia da nord a sud l’Indocina, e bagna Tibet, Birmania e Tailandia, e poi ancora Laos, Cambogia
e Vietnam. Durante I giorni del riso e della pioggia il bagaglio esistenziale del viaggiatore si alleggerisce, come stemperato
nella massa d’acqua del grande Mekong che egli sta risalendo «come un vecchio barcone incrostato di
conchiglie, sabbia e antico cordame». E in questo lento andare, con quel senso di libertà che non serve ad aggiungere
quanto piuttosto a ripulire, l’uomo riesce pian piano a sollevare se stesso e a svincolarsi – quasi – dal
peso di domande e inquietudini accumulato in una intera esistenza. Perché tutto quel che si fa tornare a galla
scorre a pelo d’acqua con gran facilità…
L’autore:
Tito Barbini ha un passato di impegno e incarichi politici nelle istituzioni pubbliche toscane: giovanissimo è stato
eletto sindaco di Cortona, poi presidente della Provincia di Arezzo e in seguito assessore regionale. Viaggia
molto e ne scrive con passione: in questa stessa collana è pubblicato Caduti dal Muro.
Via Maragliano, 6 • 50144 Firenze • Tel. 055 324761 • Fax 055 3215387
E-mail: dire@vallecchi.it • Internet: www.vallecchi.it
Collana Off the road
Formato 12x16
Pagine 224
ISBN 978-88-8427-160-0
Prezzo Euro 10,00
Uscita Gennaio 2010
I GIORNI DEL RISO
E DELLA PIOGGIA
dal delta del Mekong
alle sorgenti del Tibet
di Tito Barbini
Tito Barbini è tornato in Asia.
Dopo Caduti dal muro e le terre dell’ex Unione sovietica, ecco i sei
paesi dell’Indocina attraversati sulle acque del fiume Mekong.
Una traversata che è insieme metafora e pretesto del vivere.

sabato 17 ottobre 2009

La Politica è bella




«La politica è bella». Dice proprio così: sono queste le parole che il padre del protagonista sussurra al figlio poco prima di morire. «La politica è bella»: fai fatica a crederci, ma è proprio questo è il messaggio di speranza che l’ultimo film di Giuseppe Tornatore ci regala. Una frase che non sentivo dire da anni e che avevo bisogno di ascoltare nuovamente. Una frase che mi ha colto di sorpresa e che mi ha emozionato, permettendomi di tornare di incanto alla mia infanzia e alla adolescenza, quindi anche alla mia storia politica. Quella storia che ho cercato di raccontare in “Caduti Dal Muro”, il libro che ho scritto con Paolo Ciampi.
Baarìa è un film in programmazione nelle sale aretine. Lo consiglio vivamente a chi di voi mi legge e ha imparato a conoscermi. Ma lo consiglio soprattutto, e caldamente, ai giovani rampanti della politica, che siano di centrodestra o centrosinistra non importa.
Non credo alle folgorazioni tipo Paolo sulla strada di Damasco, ma chissà che non rappresenti comunque una lezione salutare. Di quelle che ti aiutano a riflettere su te stesso e su quello che stai combinando della tua vita (e peggio ancora, della vita degli altri). Chissà, magari proprio grazie a questo film riusciranno a comprendere meglio i valori della politica che sono lontani dal carrierismo e dalla ricerca di un posto nei consigli di amministrazione di qualche ente, pubblico o privato che sia. Tornatore ricostruisce un mondo che non c’è più.
Uomini e donne che non ci sono più. Ma la vera magia è che quel mondo, con le relazioni umane che esso conteneva, ha ancora la capacità di farsi raccontare e in questo modo di destare passioni. Baarìa è, soprattutto nel primo tempo e prima dell’avvento degli anni sessanta, un film epico. Un film che attraverso una storia individuale dispiega una storia collettiva. La storia di un popolo. E raccontando la storia di un popolo, custodisce e trasferisce la memoria di quella storia e di quel popolo. E’ capace , in ultima analisi,di mettere davanti ai nostri occhi la nostra identità, quasi facendocela toccare e sentire respirare .
In un momento in cui tutti sono alla ricerca d’identità, molti s’interrogano sul senso stesso dell’identità, altri addirittura la re-inventano, basta ripensare alle pagliacciate della Lega che riempie ampolle alle sorgenti del Po, oppure al mondo virtuale, finto e immorale, proposto da Berlusconi. Giuseppe Tornatore sembra invece aver trovato il filo che sbroglia la matassa. Lui racconta e raccontando accumula.
Accumula storie e sentimenti. Storie e sentimenti che insieme “costruiscono” la Storia. Però in questa storia si sviluppa anche il concetto di politica e di politico. E come non rivivere le emozioni,gli ideali, le speranze , la passione che la mia generazione ha riversato nell’impegno politico? Come non guardare con nostalgia a ciò che eravamo e a ciò che con le lotte politiche si voleva cambiare? Il cinema, il grande cinema, ha sempre raccontato il passato e il futuro. È stato memoria o ha anticipato. Il cinema può essere anche speranza e quel «La politica è bella», proferito in punto di morte, è la più bella speranza che Tornatore potesse regalarci. Una speranza quanto mai necessaria oggi e che, ripensando ai miei vent’anni, mi fa tornare il sorriso. Eppure ciò che conta, ciò che resta – è uno dei grandissimi momenti del film, probabilmente il più alto – è il passaggio di testimone tra un padre e suo figlio. Un passaggio di consegne che ci dice molto: se anche resta poco della Storia maiuscola, rimane la vita degli esseri umani, che conta più delle ideologie. Rimangono principi e valori essenziali, quali la dirittura e la coerenza, il volersi bene. Quello di Giuseppe è un ricordo, un omaggio intimo e privato, alla propria famiglia prima di tutto. Ma ci sono storie che ti fanno sentire a casa tua, che le ascolti solo per dirti, è vero, anch'io c'ero, riguarda anche me. Per dirti e per dire ad altri, magari a chi verrà dopo di noi: e per capire così che non tutto è stato inutile.

lunedì 5 ottobre 2009

La mia Patagonia





Ho già consegnato all'editore il mio nuovo libro " I giorni del riso e della pioggia" (Dal delta del Mekong alle sorgenti del Tibet) . Uscirà nelle librerie il prossimo Febbraio. Mi sono messo già al lavoro per scriverne un'altro. Un nuovo libro di viaggio per raccontare la straordinaria storia del prete salesiano Alberto Maria De Agostini, esploratore e missionario nei primi anni del secolo scorso, che gli indios della Terra del Fuoco chiamavano semplicemente Don Patagonia. Partirò di nuovo per un lungo viaggio il 15 Novembre. Nel frattempo ho già iniziato a buttare giù alcuni appunti.




La mia Patagonia


Ecco le strade, che come nastri appoggiati sulle onde lunghe di un mare in bonaccia, vanno verso l’infinito.
Alcuni sono d’asfalto e tutti gli altri, fatti di terra, hanno una sfumatura di colore ocra. Ovunque pennellate di tinte improbabili perché cambiate incessantemente dal vento. La mancanza di un segno, un segno qualsiasi all’orizzonte mi inquieta ancora una volta.
Sono ormai molti anni che vengo in Patagonia. Ogni volta ho la sensazione che il luogo non cambia, forse l’unico posto al mondo che non cambia mai, anche se ormai sembra sia diventata una località ambita dal turismo mondiale della tarda modernità. D’altronde non può cambiare il nulla, quello più tormentato ed estremo la dove le storie, tutte le storie, vanno a finire.
Perché mi attira cosi tanto la Patagonia?
Mi sono posto questa domanda tante volte, magari scrivendo qualche pagina sul mio diario di viaggio o leggendo su qualche pagina di un viaggio della fantasia. Anche Darwin deve essersi fatta una domanda simile:
..Richiamando le immagini del passato, scopro che le pianure della Patagonia si ripresentano con insistenza ai miei occhi, eppure quelle pianure sono considerate da tutti squallide e inutili. Le si può descrivere soltanto con caratteri negativi; senza case, senz’acqua, senz’alberi, senza montagne, producono soltanto alcune piante nane. Perché allora, e ciò non accade soltanto a me, questi aridi deserti mi si sono impressi così fortemente nella memoria?
Da parte mia ho sempre trovato delle risposte nel senso della promessa. La promessa di un viaggio verso il nulla e alla ricerca di un paradosso. La promessa,certo, di una dimensione non conosciuta della spazio, ma anche qualcosa di incorporeo e immateriale, forse l’anima.
Perché la Patagonia è luogo del silenzio, delle solitudini estatiche e della libertà. Sembra che, quando si sta morendo, in pochi attimi ci scorra davanti tutta la vita trascorsa. La Patagonia funziona un po’ allo stesso modo: ti consegna a una moviola della mente, allo scorrere lento della tua esistenza, e ti costringe a tentarne un bilancio. Mi succede solo qui, e in Antartide. Il bus, passato il Rio Colorado , entra in un orizzonte che mi è ormai familiare.