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lunedì 17 dicembre 2012

La mia storia comincia dal Bagno Penale di Ushuaia...


Ecco, comincia cosi questa mia nuova storia nella terra ai confini del mondo, con l’evasione dell’anarchico russo Simon Radowitzki.

E’ una storia di anarchici e migranti.

Siamo nel 1918 e questa è la terra estrema a sud della Patagonia. Ho scritto tanto di questa terra e dei suoi costruttori e, quasi sempre ogni storia si incontra con l’altra in quel cerchio magico che Borges ha descritto cosi bene.

Esploratori che si trasformano in conquistatori, coloni spietati, cacciatori di balene e di teste, assassini e braccianti sfruttati schiavizzati impotenti di fronte al naufragio di un sogno che si chiamava America. E ancora, ribelli anarchici e celebri rapinatori fino ad arrampicarsi nelle pieghe amare della storia più recente: le prostitute del postribolo La Catalana, le madres de plaza de Majo, i coniugi Curinonco, dell’etnia Mapuche ai quali lo stato ha strappato la terra per venderla all’italiano Luciano Benetton. In mezzo a questo oceano brulicante di vittime e carnefici, pescatori di granchi e cercatori di pepite ci sono i preti e gli scrittori. E il viaggio diventa pretesto per incontrarli o raccontarli. Ho raccontato tutto questo nei miei libri. Antartide, Le Nuvole non chiedono permesso e il Cacciatore di Ombre sono la mia testimonianza.

E’ proprio vero tutte le vite hanno una storia, ma poche vengono scritte.

Terra del Fuoco, più di un secolo fa. Si chiamava Pasqualino Rispoli e veniva da Torre del Greco.

Arrivò nel 1897, non aveva ancora vent’anni e subito si mise a far traffici di contrabbando tra Argentina e Cile navigando con la sua barca nel Canale.

Pare che fosse un bella giornata di sole quando sbarcò a Punta Arenas.

Non capita quasi mai da quelle parti.

Ma Pascalino, come veniva chiamato da tutti, arrivò in estate, quella australe s’intende. La data era la stessa il 10 gennaio della sua nascita, diciannove anni prima. Vietato credere alle coincidenze. Come se quel ragazzo spaurito, quel mozzo cencioso, fosse entrato dentro la storia di quelle terre alla fine del mondo.

Questa che trova il ragazzo di Torre del Greco è una terra ancora incognita, per lo più ancora da esplorare, attraversata dai venti gelidi che vengono dagli oceani alzando polvere di mare.

Abitato per lo più da sparute comunità di indios e da avventurieri senza scrupoli che venivano in queste terre a vivere le loro cattive azioni.

Raccontano che nelle stive della nave che lo portava verso il sud ci fosse un sacco con tutto ciò che gli restava del padre. Durante le settimane della traversata Pasqualino passava ore a guardarsi delle foto sbiadite di quel genitore fuggito, per paura di non riconoscerlo al suo arrivo.

Ritrovò il padre pochi giorni dopo dal suo arrivo a Punta Arenas.

Incontro drammatico secondo alcuni testimoni, commovente secondo altri. Probabilmente le due cose insieme.

Con gli anni fece affari e mise su famiglia, poi, appunto, gli capitò l' occasione di fare l'eroe (per 1000 dollari) aiutando un anarchico russo a scappare dalla tremenda prigione di Ushuaia. Lo traghettò fra canali e isole fino allo Stretto di Magellano dove il povero anarchico fu ripreso e tornò in galera per altri 12 anni. Pasqualino se la cavò con pochi giorni di guardina. Morì nel 1957, come un tranquillo borghese.

Dunque, un giovane parte alla ricerca del padre emigrato in circostanze oscure in terre sconosciute. Lo ritrova alla fine del mondo, nella gelida Patagonia. Qui diventa pirata, contrabbandiere, mercenario. Il miglior lupo di mare sulle rotte tra il Cile e l’Argentina. Nelle vene sangue torrese. Diventa un mito.

Mi fermo qui. I prossimi capitoli cercherò di scriverli nei prossimi giorni mentre sono in viaggio. Off the road...come si dice! Un abbraccio a tutti i miei lettori e Buon Natale.

giovedì 13 dicembre 2012

Ho trovato la statua che non c'era...


Ecco, sono arrivato  da poche ore a Puerto Natales. Sono sceso dal Buses della compagnia Pacheco e mi avvio subito verso il Porto per trovare la statua di De Agostini con il capo degli indigeni Ona. Ho parlato di questa statua e della sua strana storia nel mio libro "Il Cacciatore di Ombre" e penso che sia un pò anche merito mio se, finalmente, è stata collocata in un posto bellissimo vicino al mare. Il momunento celebra l'amicizia di De Agostini con gli indios. Un genocidio dimenticato quello degli indios della Patagonia e della Terra del Fuoco. 
 La sorte degli indios della Patagonia e della Terra del Fuoco  era indissolubilmente legata a quella del guanaco, il lama selvatico delle Ande.
I territori della caccia si sono sovrapposti a quelli della leggenda e io percorro liberamente gli uni e gli altri nel dipanarsi del mio racconto.
Quando Alberto s’incontrò con gli ultimi Alacaluf si commosse per la loro miseria. Ecco come ne parla in Ande Patagoniche:
Eccoci giunti al loro accampamento. Piove dirottamente e noi non possiamo comprendere come questi miseri selvaggi possano trascorrere la vita in questo ambiente. E’ costituito da poche capanne vicine le une alle altre. Hanno una forma emisferica, formate con rami conficcati al suolo e convergenti al centro dove rimane uno spazio vuoto per l’uscita del fumo. Sopra questa rozza armatura è disteso uno strato di pelli di foca. Nel centro della capanna un fuoco sempre acceso. Ovunque ammucchiati i residui della loro alimentazione consistenti in gran parte in conchiglie di cozze e patelle, ossi di uccelli e qualche tibia e cranio di lontra. Come si vestono? Fino a pochi anni fa il loro vestito era una pelle grande di lontra o di guanaco che portavano nella schiena  e una piccola intorno alle reni.
Ora invece si coprono con vecchi stracci che acquistano dai loberos, (cacciatori di foche)  o abiti che  prendono in regalo dai passeggeri delle navi.
Bello questo racconto, ho sempre pensato a De Agostini anche come a un discreto scrittore.
Uomo di poche parole, per certi versi uomo solitario come le vette delle sue montagne, nelle parole che mette nella carta è pervaso da una sensibilità commossa, parla di uomini con le loro sofferenze, di una natura bella ma anche terrificante.
Mi sono domandato spesso, in questo mio errare per i villaggi scomparsi, in questi colloqui immaginari con le ombre degli indiani, se De Agostini fosse un combattente, magari senza spada,  o soltanto un testimone del genocidio degli indiani.
Perché nessuno ha raccontato del suo impegno nel diritto alla vita e all’esistenza degli indios?
Domanda imbarazzante che però ha bisogno di una risposta.
Alberto parla spesso nei suoi scritti della condizione degli indios e prende posizione a favore delle tribù indigene che andavano via via scomparendo sotto la persecuzione dei bianchi.  Aveva preso a cuore il problema e non sopportava che tutto fosse smarrito dentro una filosofia di neutralità che compiangeva gli indiani ma non condannava i coloni e i cacciatori bianchi. 
Durante le sue esplorazioni, ma anche nella semplice ricerca delle anime da portare al cristianesimo, Alberto aveva stretto dei rapporti di vera amicizia con gli Onas, gli Yamanas e gli Alacalufe nella Terra del Fuoco, ma anche con i Tehuelches in Patagonia. 
Avvertiva che gli stessi missionari, compreso lui stesso,  pur nelle migliori intenzioni potevano disturbare l’equilibrio secolare del rapporto degli uomini con la natura. 
E non era facile conciliare queste convinzione con la responsabilità del “pastore di anime” che doveva occuparsi anche dei coloni, dei cacciatori e dei minatori, di tutti coloro che arrivavano in quelle terre in cerca di fortuna.
Tuttavia non gli mancò mai il coraggio di schierarsi, di prendere le parti dei deboli e di denunciare.
E’ stata una scoperta anche per me, questo piglio di combattente. E' proprio così: di coraggio De Agostini dimostrò di averne in quelle circostanze difficili.
In un libro che scrisse dopo i primi anni in Punta Arenas, arrivò perfino ad accusare il governatore di Punta Arenas, Manuel Senoret, di genocidio nei confronti degli indiani.
La responsabilità di queste guerre di sterminio degli Onas, poggia in larga misura sul Governatore Senoret…Per tutelare gli interessi di alcuni proprietari e di opporsi anche ai missionari salesiani, che avrebbero preferito espellere, dall’isola di Dawson per riappropriarsi di foreste e pascoli, favorì la più indegna delle persecuzioni “
E non è certo la sua unica denuncia. C'è voluto il suo tempo, ma con un paziente lavoro di ricerca tra le carte lasciate al museo salesiano di Punta Arenas, ho trovato altri suoi scritti. Impressionanti per la loro lucidità.
 I pastori bianchi hanno visto negli indiani il maggior ostacolo alla diffusione del loro patrimonio e hanno cacciato gli indios come bestie feroci.  Posso fare i nomi di coloro che hanno avvelenato grandi pezzi di carne con la stricnina per distribuirla poi alle varie tribù…
Qui come nel Far West, come nella Pampa o nel Chaco, il destino degli indiani è inesorabilmente segnato. Il pioniere avido di profitto contro l’inerme indigeno. Tutto sta finendo. Non sentirete più le vergini foreste sprofondare nella quiete delle notti lunari, le antiche leggende dell’eroe Kuanip, di suo figlio Red Mountain, e sua moglie, l’infelice e graziosa Oklta, trasformata in un pipistrello. Il Koliot (straniero) che veniva da terre lontane, affamato di ricchezza e padrone di armi letali, ha completato il suo lavoro disastroso, distruggendo per sempre la felicità di questa razza primitiva, che aveva vissuto per secoli, innocua e solitaria, nella parte più lontana del mondo
Ed è leggendo righe come queste che mi cresce l'orgoglio per essere diventato amico di un missionario così.

venerdì 7 dicembre 2012

Sono arrivato in Terra del Fuoco e ho scritto il primo capitolo...





Quel giorno che il capo degli anarchici doveva evadere dal bagno penale di Ushuaia,  Pascualino si alzò molto presto per andare a pigliare la sua barca.  In rada vide le navi che giacevano in una pigra bonaccia e pensò che il tempo non permetteva di navigare.
 Guardò l’orizzonte e a pochi nodi di distanza gli scogli con il mare squassato dai venti e dai marosi. Conosceva bene quei venti. Raffiche improvvise di un vento infernale sorto dal nulla, burrasche che si radunano in un batter d’occhio,  correnti furiose che trascinano senza troppi complimenti verso gli scogli della costa, chiamata non per caso, della Desolaciòn. Guardò il mare con rispetto ma decise di partire lo stesso. Così affondano le navi guidate da marinai inesperti-pensò- infilandosi il ruvido gorro di lana di guanaco e sciogliendo gli ormeggi.
Naviga vicinissimo alla costa,  sfiorando vertiginosi fronti di ghiaccio infilandosi tra i fiordi e scansando isole di ghiaccio vagabonde.  Sta attento a non  farsi notare quel giorno anche se naviga in una rotta solitaria dove gli unici incontri sono con colonie di foche e elefanti marini. Anche qualche balena sbuffa più in lontananza.
Navigare nello stretto di Magellano o nel canale di Beagle è difficile per chiunque. Scogli, secche e nebbie improvvise. Ma per Pasqualino è una sfida che si ripete ogni giorno che Dio mette in terra.
Lui non ha bisogno di mappe o di radar, gli basta guardare il sole, la luna e le stelle. Oppure inumidire un dito con la saliva per sentire la direzione del vento.

mercoledì 5 dicembre 2012

Ritorno in Patagonia





E così sono di nuovo in viaggio. E di nuovo mi sto dirigendo verso i luoghi che sempre di più sono diventati i miei “luoghi dell'anima”, la Patagonia e la Terra del Fuoco. Luoghi dove riesco a sentirmi a casa, benché in modo diverso che ad Arezzo con le persone a cui voglio bene. Luoghi che mi sono entrati nel sangue e che mi aiutano a restituirmi a me stesso.

Starò via almeno due mesi: un periodo molto lungo per una vacanza, ma direi giusto per
 un viaggio autentico, che come tale richiama un'esperienza umana, da coltivare, da fare crescere. So di essere fortunato: mi posso permettere di fare ciò che davvero mi piace.
Viaggio per inseguire nuove storie. Viaggio per continuare a scrivere libri di viaggio. E viaggiando cercherò di non perdermi. Qui, e sulle pagine della mia moleskine, cercherò di scrivere una sorta di diario di bordo.
Il viaggio di quest'anno è  sulle tracce dell'ultimo pirata della Patagonia. Spero di regalarvi un altro libro di viaggio.
Spero di non annoiarvi. Ma se non vi annoierò non sarà solo merito mio. In realtà in viaggi come questo succedono tante cose strane, irrilevanti o importanti, diversissime tra loro. Cose che comunque in qualsiasi parte del mondo hanno spesso un nesso che le lega l’una all’altra. E' un po' la storia del battito di farfalla a San Francisco che provoca un terremoto a Tokio. O viceversa..


RITORNO IN PATAGONIA



venerdì 9 novembre 2012


Caduti dal Muro

Io però lo dico: una volta, qualche tempo fa, ero comunista.
Sono nato in una famiglia comunista, ho frequentato una scuola di partito comunista, sono stato militante comunista, sindaco comunista, assessore comunista… Da giovane ho distribuito migliaia di volantini. Ho trascorso notti intere in discussioni, fino a che gli occhi non si chiudevano per la stanchezza e gli eccessi da tabacco. Ho partecipato a congressi e assemblee, direttivi e attivi, riunioni di sezione e feste dell’Unità, e quant’altro, quanto davvero, tanto che se ora mi guardo indietro la mia vita mi pare un fiume di parole in piena…
Ho studiato ho parlato, ho scherzato, mi sono accapigliato e poi mi sono riappacificato da comunista.
Caro amico tu appartieni a un’altra generazione, per l’anagrafe e per la politica. Forse non mi puoi seguire davvero in quanto sto provando a dirti.
Non puoi capire fino in fondo che cosa ci può essere dietro domande secche come colpi di scudiscio.
E poi, cosa è successo?
O peggio ancora: e adesso?  

Non voglio dire che parto solo per questo, è ovvio.
Però per me questi non sono punti interrogativi da dibattito accademico o da seminario di studi. Non posso catalogarli e poi tralasciarli come enigmi senza soluzione che possono comodamente restare tali, allo stesso modo del cruciverba più difficile della Settimana Enigmistica, il maledetto Bartezzaghi. 
E questo non è il passato che posso elegantemente liquidare con una nuova tessera, una nuova appartenenza. Potrei farlo, dovrei farlo, ma non basta.
Perché qui c’è la vita in ballo: la mia vita.
La mia vita e, assieme, una gigantesca tragedia: quella dei paesi che sono stati attraversati, o meglio dire schiacciati, da quel socialismo “reale” tanto crudelmente diverso dal socialismo dei miei sogni.
Ecco, questo è un buon motivo per partire. Dalle macerie del muro di Berlino verso l’Est europeo e poi verso l’Asia. E quindi ancora dalla Cina di oggi, falce e martello e capitalismo rampante, fino ai Balcani del muro contro muro di popoli e religioni.
Un viaggio a ritroso, alla ricerca di tracce di passato, fallimenti e delusioni della grande utopia comunista
Ma anche il viaggio di chi, per anni, nell’età dei conflitti, ha creduto che in quella utopia si annidassero libertà e democrazia, la giustizia assieme all’eguaglianza.
E più che un viaggio, un’autobiografia in forma di viaggio, quasi un romanzo o un film on the road.
Spostandomi tra luoghi nuovi e sconosciuti, indugiando su persone e cose mai viste, forse riuscirò a rivedere il mio passato. E magari la distanza del mio altrove mi aiuterà a rimettere a fuoco i fatti, a rendere nitida e comprensibile l’inquadratura di una vita.
Del resto una volta me lo hai spiegato proprio tu, con una citazione: il viaggio è un modo per conoscere la propria geografia. La geografia dell’anima.  ( dal libro "Caduti dal Muro" ) Vallecchi 2009 di Tito Barbini e Paolo Ciampi

sabato 27 ottobre 2012

Cosa ci fa il busto di Lenin al Polo Sud ?





È proprio il caso di credere che il materialismo storico sia una categoria filosofica che si adatta a tutto. Tanto che può persino permetterci di indagare sui mutamenti climatici del mondo che hanno origine in Antartide.
Non molto tempo fa, una squadra d’esploratori britannici e canadesi si mise in marcia per raggiungere, primi a farlo a piedi, il cosiddetto “Polo Sud dell’inaccessibilità”, che poi è il punto più remoto dell’Antartide.
Ce la fecero, dopo sette settimane di venti terribili e temperature decisamente al di sotto lo zero. Ce la fecero, trascinando slitte di 120 chili e scarpinando per quasi duemila chilometri. E una volta che ce l’avevano fatta, si imbatterono in una sorpresa da restarsene a bocca aperta per un pezzo.
Roba da non crederci: perché ad accoglierli, nel punto più remoto e inospitale del mondo, fu nientemeno che l’espressione solenne e accigliata di Vladimir Ilic Lenin. Gli occhi del socialismo reale più che realizzato nella forma in apparenza eterna di un busto senza alcun tratto di gelo, neppure un ghiacciolo sul naso! In effetti non ci credevano, i quattro protagonisti dell’impresa.
All’inizio la presero per uno strano pezzo di ghiaccio e per un’ombra disegnata al suolo, poi pensarono a un miraggio, o a un’allucinazione: succede dopo venticinque ore che arranchi per i ghiacci senza sosta.
Alla fine dovettero arrendersi a quello sguardo inquisitore.Era proprio lui.
Ma che ci faceva, il padre dei Soviet, proprio lì, nel punto più inaccessibile del continente di ghiaccio?
I reazionari diranno che l’hanno sempre saputo, loro: i comunisti sono sempre dappertutto.
In realtà dietro tutto questo c’è una storia che i nostri esploratori non potevano certo conoscere.
Nel 1958, in piena guerra fredda, i sovietici raggiunsero il “Polo dell’inaccessibilità”. 
Zitti zitti vi installarono una base di ricerca meteorologica che operò solo per qualche mese e che quasi sicuramente svolse anche qualche attività militare.
Poi se ne andarono lasciandosi dietro questo incredibile souvenir.
Così l’artefice e animatore dei “dieci giorni che scon- volsero il mondo” e della rivoluzione con la erre maiuscola si ritrova nel gelo antartico: non solo perfettamente conservato ma, guarda caso, esattamente nel punto più lontano da qualsiasi barlume di vita civile.
Non mi meraviglierei se scoprissimo, magari tra qualche anno, che un altro busto di Lenin viaggia su qualche satellite abbandonato e perso negli spazi siderali. Tutto sommato ne sono certo.
Ne voglio parlare con il mio amico Serghei quando tornerò in Antartide con il rompighiaccio su cui lavora. Magari nessuno glielo ha mai detto. Forse gli farà piacere sapere che nella sua ripetuta rotta per il Polo Sud potrà contare sulla vicinanza ideale del grande artefice della Rivoluzione bolscevica.
Sempre che non si arrabbi, al cospetto di un altro inequivocabile segnale della dissoluzione della patria socialista.
Dopo la fine dell’impero, la caduta del suo mito, messo a congelare nel freezer del mondo, come un qualsiasi mammut.

giovedì 13 settembre 2012

SOLO AL POLO SUD





Il 19 Ottobre 2012 presenterò Antartide nella "Libreria Del Mare" di Palermo
Per questa occasione ripropongo ai miei amici viaggiatori della Sicilia una 
bella recensione di Augusto Guidi







Eccolo il Polo Sud, altrimenti detto Antartide. E “Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo” è appunto, il titolo de suo libro di viaggi nel continente estremo, ora in libreria. Cento pagine nelle quali l’autore racconta il suo lungo, lento avvicinamento al continente di giaccio che gli si annuncia come “una linea infinita di tessuto bianco immacolato”. Quella “linea d’ombra” che arriva attraverso i sogni, i ricordi, le emozioni di un vecchio ragazzo che, come il protagonista del famoso racconto di Conrad “... avverte di dover lasciare alle spalle le ragioni della prima gioventù ...”.
Eppure, l’autore ha ben altre età rispetto al giovane ufficiale conradiano. Quello che sorprende nel libro di Tito Barbini è il fresco ed intatto incantamento dei giovani che consente di vedere le cose come se fossero state create in quel momento: proprio per noi. E, ancora, la febbrile inquietudine dell’attesa, poi disciolta nel ritmo del viaggio e nel flusso ininterrotto di immagini e pensieri. In maniera struggente, in queste pagine,  sembra che il tempo si sia effettivamente fermato alla fatata età dell’infanzia e dell’adolescenza  e resti intatta la voglia di vedere cose nuove e di perdersi in un luogo estremo, di sperimentare in profondità gli impalpabili fantasmi della solitudine, unica e ineluttabile condizione per fare i conti con sé stesso e comprendere il senso della propria vita. La prima metà del libro, scandita nelle tappe del lungo viaggio, si intreccia senza soste nel percorso a ritroso tra le ormai inafferrabili ombre del passato. Quasi che al succedersi di paesaggi e cose sempre nuove si sovrapponessero la lontana realtà della piccola città natale, il calore della famiglia, le passioni e le illusioni della politica. Qui tornano, come nel precedente libro di Tito Barbini, ma forse in forma più sofferta e compiuta, i ricordi del babbo, la delicata immagine della sorella Gimma, la scoperta del mondo sulla grande carta geografica De Agostini dell’aula scolastica e sul piccolo mappamondo con la luce dentro. Intanto la Patagonia, Punta Arenas e Ushuaia, le città più meridionali del mondo, Capo Horn e le sue tempeste, lo stretto di Drake, le guizzanti balenottere, sempre più giù verso il limite estremo della terra in un viaggio che diventa realmente un rito iniziatico, ricco di attesa e di mistero. Infine, a bordo di quel curioso rompighiaccio ex sovietico, incongruo ma sottilmente evocativo residuo del passato, quella linea che preannuncia l’Antartide. I colori del cielo, il lento navigare dei giganteschi icebergs, le lontane vette innevate e, su tutto, l’immane profondissimo silenzio di un mondo intero inesplorato, eguale a se stesso da millenni. Non deve essere stato certamente facile descrivere quei luoghi. Tito Barbini ci è riuscito con grazia, senza indulgere agli stereotipi di una facile letteratura di consumo, rifuggendo da molesti punti esclamativi, portandoci con sé e restituendoci con grande pudore, oltre ai colori e ai profili sconosciuti di una natura estrema, la verità di un viaggio interiore e di una esperienza alla maggior parte di noi negata, per tutti irripetibile. Una Antartide, quella di Tito Barbini, misteriosa e fantastica, quasi inesprimibile, ma anche una Antartide vicinissima a tutti noi, umana e familiare direi, quanto le ragioni del cuore e le urgenze del ricordo.





sabato 8 settembre 2012

lenuvolenonchiedonopermesso: C'è sempre un luogo che ti aspetta

lenuvolenonchiedonopermesso: C'è sempre un luogo che ti aspetta: Con lo sguardo che rivolgo alla mia piccola città abbraccio anche lo sguardo sui viaggi lontani della mia infanzia. Cosi lo...

C'è sempre un luogo che ti aspetta


Con lo sguardo che rivolgo alla mia piccola città abbraccio anche lo sguardo sui viaggi lontani della mia infanzia. Cosi lontana ma anche cosi vicina.  Vicina anche alla lontananza dei miei viaggi di oggi.  Il viaggio che ho intrapreso verso casa mi fa sentire a mio agio nell’aver prima compiuto altri viaggi lontani.  Le desolate lande della Terra del Fuoco o il continente Antartico si ripropongono dentro di me e si candidano ad riaccompagnarmi alla mia infanzia.  Con lo scambio dei viaggi il processo di invecchiamento della mente e dei ricordi si è come interrotto per un attimo.  Appunto, si è spezzato qualcosa nel conto del tempo.
Cosa cerco? Tutta la mia infanzia e la mia adolescenza.  Ma non solo.
 Camminare infatti per queste strade sembra una cosa nuova. Il mio sguardo cerca di cogliere forme e colori, angoli e spazi, che dovrebbero essermi già stati noti.  Non so come dirlo ma assomiglia molto a un gioco a nascondino con la nostalgia. La nostalgia che si risveglia con i ricordi.
Mi consegno alla città con tutto il mio stupore.  Alle volte penso che non avrò materiale a sufficienza per un racconto di un altro viaggio. Intendo qualcosa che avrebbe potuto meritare l’attenzione di coloro che mi hanno seguito in tutti gli altri viaggi. Succede che questo mio nuovo racconto si deve materializzare all’interno di una ambientazione  completamente diversa da tutte le altre.
Ad esempio, dare armonia cronologica al mio racconto sarà del tutto impossibile. I fatti, le persone , sono certo affidabili nella mia memoria, ma non è affidabile la collocazione nel tempo e il contesto preciso.  Ho dovuto ricorrere spesso all’aiuto di vecchi articoli di cronaca o appunti che ho scritto nel corso della mia vita.
Tabucchi diceva spesso che c’era sempre un luogo ad aspettarci.  Potrei dire che i luoghi sono sempre gli stessi. Forse cambia l’arredo. Anche i colori si rinnovano. Arredo urbano, lo chiamano oggi. Prendiamo a esempio quella che io considero la parte più bella della mia piccola città.
Dunque,  quello sul paesaggio è un discorso che devo fare ogni volta. Almeno quello che per me significa.
Cos’è il paesaggio?  Quante volte me lo sono chiesto ogni volta che rimanevo incantato dal fondale  che si svolgeva al mio sguardo.  Tanto più me lo chiedo ora qui, dove ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza.  Non sono cosi stupido da non capire che la risposta è diversa per ognuno di noi. Perché è abbastanza chiaro che il paesaggio è sempre anche un fatto interiore , una dimensione immateriale, spesso legata all’infanzia , magari segnata dall’apparenza di un ricordo.
Sono anche convinto che questa sia la ragione per cui tante volte, nell’età adulta, una certa delusione aspetta chi prova a ritrovare nel paesaggio reale i suoi ricordi lontani.  Dipende da quello che chiamiamo lo stato d’animo di quel momento, gli occhi che guardano il paesaggio insieme ai propri pensieri. Capita che tutto si perda nel nulla , o nell’assenza del tutto , tutto si scontorna e smarrisce nel gioco mutevole dei colori, delle luci, dei riflessi.
Quello che ho davanti non è un paesaggio naturale.  Forse solo in Antartide o nei grandi deserti c’è ancora un paesaggio naturale.

mercoledì 22 agosto 2012

Praga Agosto 1968





In questi afosi giorni di agosto ricorre l'anniversario dell'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia , finì in quella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 il sogno di un socialismo dal volto umano. Voglio ricordarlo quel giorno con alcune pagine del libro "Caduti Dal Muro"che ho scritto con Paolo Ciampi.







Allora c’era la Cecoslovacchia, non due paesi – la Repubblica Ceca e la Slovacchia – che si sono separati senza guerra ma con la desolazione che c’è in tutti i divorzi spinti dalla rabbia e dall’esasperazione.
Pensa: Repubblica Ceca e Slovacchia. Non è come Germania dell’Est e Germania dell’Ovest. Per i tedeschi la riunificazione stava nello stesso nome, mentre qui i nomi nuovi accolgono una differenza e allo stesso tempo evocano un’amputazione.  
La Cecoslovacchia.
La Cecoslovacchia e le truppe del Patto di Varsavia che varcarono il confine.
 Era la notte tra il 20 e il 21 Agosto del 1968.
 E io ricordo tutto di quella notte.
Perché c’ero anch’io, quella notte.

Di acqua sotto i ponti ne è davvero passata tanta, ma le immagini che conservo sono ancora nitide. Si affollano dentro di me con la prepotenza di un torrente di montagna.
E come potrei dimenticare?
Quella notte mi svegliarono le esplosioni che provenivano da un punto non lontano e il rombo dei tanks sovietici.
Le finestre della mia camera davano proprio sui viali di Piazza San Venceslao.
Mi alzai, stordito. Mi affacciai e guardai, incredulo.
La piazza era invasa dai carri armati. Si combatteva ancora, se si può qualificare come combattimento un’azione violenta in una situazione di assoluta disparità di forze.
Se chiudo gli occhi mi sembra ancora di sentire il rumore sordo dei colpi e poi l’aria solcata dal fumo delle loro traiettorie. Carri armati contro gruppi di ragazzi asserragliati al Museo Nazionale, in un disperato tentativo di resistenza.
Su Praga non era ancora arrivato il gelo delle grandi pianure orientali, ma la sua Primavera era già stata soffocata.
Andò così, con lo strapotere di Golia su Davide, perché poi la storia è così: raramente Golia si lascia sconfiggere e se lo fa quasi sempre è solo per distrazione.

 Ero tornato a Praga poco dopo essermi sposato. Volevo rivedere e abbracciare gli amici della federazione giovanile comunista  praghese che avevo conosciuto due anni prima, al festival internazionale di Helsinki.
  Tutto sembrava tranquillo in quei caldi giorni d’estate. La città era piena di turisti, i praghesi rientravano dalle ferie sui monti Tatra o ai laghi della Boemia.
Le strade brulicavano di gente e nei parchi i vecchi seguivano i giochi dei bambini, con la preoccupazione che è dei nonni di tutto il mondo.
La Primavera di Praga, quella politica, era iniziata presto quell’anno.
  In pochi mesi Alexander Dubcek, il giovane segretario del Partito Comunista, aveva scaldato il cuore del suo paese e riacceso le speranze di milioni di comunisti in Europa e nel mondo.
 La posta in gioco era alta: tenere insieme democrazia e socialismo; far vivere, proprio in un paese comunista, una nuova idea di libertà e di giustizia.
Nell’aria si respirava il profumo pungente della rivoluzione, insomma. Di una rivoluzione giusta e incruenta, che non avrebbe cancellato il passato, ma semmai lo avrebbe riportato sui binari giusti.
Bisognava andare avanti proprio per riannodare i fili spezzati, per completare, e completare bene, quello che a un certo punto era girato male.
La Primavera di Praga era proprio questo: non voltare le spalle al comunismo, ma riappropriarsene; restituire dignità a una grande idea di cambiamento, per ridare anche a noi, che ci credevamo appassionatamente, nuovo vigore, nuovo entusiasmo.
E furono quei colpi, quei colpi che uccidevano la Primavera, a svegliarmi…

Il balzo verso la finestra, il tempo di vestirmi, poi giù per le scale con la voglia di uscire nella piazza.
Il dolore, la rabbia, e insieme pure la sensazione di vedere, di vivere la storia….
Avrei voluto protestare, ribellarmi, indignarmi anch’io come la gente di Praga che, sbigottita e umiliata, uscendo dalle case, correva incontro a San Venceslao. 
Non so se ci sarei riuscito, perché poi l’istinto deve misurarsi con le risorse di determinazione e coraggio, prima ancora che del buon senso.
Non so, perché non mi è stata data la possibilità di mettermi alla prova. La porta dell’albergo era sbarrata da due ragazzi in divisa. A nessuno, e soprattutto agli ospiti stranieri, era consentito di uscire.
Era la prima volta che provavo sulla mia pelle la coercizione fisica. Presumibilmente anche l’ultima. E al mondo, certo, ci sono ben altre proibizioni che incidono sulla tua libertà di movimento, sugli spazi della tua vita, però io l’ho trovata ugualmente insopportabile.
Forse la mia percezione sarebbe stata diversa, ad aver sperimentato un carcere o un campo di concentramento, ma la mia volontà era stata comunque frantumata, umiliata. Stritolata prima ancora che dai cingoli dei carri armati dalle parole che un giovane ufficiale dell’Armata Rossa, gentilissimo nei modi, continuò a ripetere senza sosta: «Tranquilli, tranquilli, è solo una normale operazione militare. Siamo stati chiamati per ristabilire l’ordine»
. Come se davvero ci potesse essere qualcosa di “normale”, in quella “operazione”.
Passaporto alla mano, fecero accomodare tutti gli stranieri nella sala del vecchio Caffè Europa da cui ora ti sto scrivendo, Paolo. Qui veniva spesso Franz Kafka, lo scrittore che forse più di tutti ha scandagliato l’inquietudine di un uomo moderno senza possibilità di riscatto nelle religioni e nelle ideologie.
Sedeva davanti a un piccolo tavolo di marmo verde e attraverso le vetrate osservava la piazza. Forse proprio qui ha scritto alcune pagine dei suoi racconti.
 Ti ricordi le prime parole della Metamorfosi?
 «Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregori Samsa si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto».
E mi pare che lo strano destino di Gregori Samsa sia stato condiviso anche da questa meravigliosa città, costretta a risvegliarsi in una notte popolata di giganteschi insetti di acciaio che sputavano saliva di fuoco.

Così ricordo quell’agosto 1968, un ricordo così intenso e così spiazzante da cancellarmene altri assai più belli di un anno di colori, fermenti, idee in movimento da un angolo all’altro del pianeta.
Il mio soggiorno in Cecoslovacchia si concluse con un foglio di via obbligatorio e ventiquattro ore di tempo per varcare la frontiera con la Germania. Cosa che feci immediatamente: e quella, in un certo senso, fu la prima volta che voltai le spalle al socialismo da quando, ragazzino, avevo accompagnato mio padre alle riunioni in sezione. 
Intanto i soldati sovietici avevano provveduto a ristabilire l’ordine, così come ci aveva spiegato quel giovane ufficiale. Lo avevano fatto con un bilancio di sangue tutto sommato contenuto rispetto ad altri massacri – i morti furono una trentina – ma imponendo enormi costi umani, ideali, politici.
Dubcek fu arrestato e portato a Mosca. Ai tempi di Stalin non avrebbe fatto ritorno, ma ora invece che la vita provarono a sottrargli la dignità. Finirà a lavorare come manovale in un’azienda forestale nei dintorni di Bratislava.
Allo stesso modo gli altri protagonisti della Primavera di Praga – politici, giornalisti, intellettuali – furono espulsi dal partito e privati del loro lavoro. Diventarono operai, camerieri, muratori. 
L’ordine restaurato, per una volta, seppe fare bene il suo gioco: condannando a morte si generano martiri, condannando a vivere vite umiliate si spezzano le reti della solidarietà. Cinici ma intelligenti.
Qualche mese più tardi, per la precisione era la sera del 16 gennaio 1969, un giovane studente si avvicinò al monumento del Re Santo. Sotto il cappotto nascondeva una tanica di benzina. Se la versò addosso e si diede fuoco con un accendino.
Le fiamme inghiottirono i suoi capelli biondi e la sua esile corporatura da ragazzino.
Si chiamava Jan Palach, quel ragazzino, e bruciò come un bonzo vietnamita.
 Il fuoco si portò via la sua vita, ma accese una speranza che sopravvisse per venti anni tondi tondi, fino a che il muro di Berlino, crollando, non fece rotolare i suoi calcinacci fino a Praga.
Niente di tutto questo mi pare vero, ora che sono di nuovo a Praga, di nuovo all’Hotel Europa, ora che converso con Anna del passato e del presente e poi ancora del passato.
Non mi sembra vero, se solo spingo gli occhi fuori della vetrata, la stessa vetrata di trentasette anni fa, e indugio sulle comitive di turisti giapponesi mordi e fuggi, sulle pubblicità di hot-dog e di videocamere, sulle vetrine scintillanti di negozi che sono altrettanti archi di trionfo del capitalismo ruggente e globale.

venerdì 6 luglio 2012



Finalmente!


La condanna inflitta ieri dal tribunale di Buenos Aires al dittatore Videla e alcuni altri criminali argentini è certamente una notizia che riempie di gioia.


 Ma, purtroppo mi spiace constatare che anche questa volta piena giustizia è stata negata alle madri e alle nonne di Plaza De Mayo. Ho dedicato a loro molte pagine del mio ultimo libro "Il Cacciatore di Ombre". 
Eccone alcune:
 Alle tre del pomeriggio il caldo è opprimente in piazza De Mayo. Però sono contento di stare camminando con le Madri, anche solo il tempo per fare il giro della piazza. La cosa giusta da fare.
 Da fare da oltre trent’anni, perché è da tanto che tutti i giovedì queste donne si ritrovano e marciano con i loro cartelli e i loro fazzoletti bianchi. Ormai sono rimaste in poche, ma va bene così.
Ormai mi vedono quasi ogni anno e mi salutano con affetto. Ho parlato di loro in Antartide e nel mio primo libro Le Nuvole non chiedono permesso.
  Torniamo a piedi al numero 1584 di via Hipolito Yrigoyen, dove c’è la loro associazione. Più che una sede è un grande centro sociale.  Con le sue stanze per le riunioni, le sale per il cinema, il teatro assomiglia alle nostre vecchie case del popolo, prima che diventassero discoteche. La libreria è propria all’entrata e mette a disposizione libri e pubblicazioni di ogni genere. Per la maggior parte riguardano la sinistra radicale e movimentista di tutta l’America Latina: questo fa parte di una scelta politica ben precisa delle Madri.
Mi commuove sempre un grande stanzone, dove si preparano gli striscioni delle proteste e dove sono accatastate migliaia di cartelli con le foto dei figli e dei nipoti desaparecidos. Ora non lasciano quasi più questa stanza, le foto dei ragazzi e delle ragazze che sono scomparsi nella notte dei generali, sono rare le manifestazioni di massa. Però le madri tutti i giovedì si ritrovano ancora in Plaza de Mayo.  Fino a quando? Ogni volta che azzardo questa domanda la risposta è sempre la stessa.  “Fino a quando ci sarà una sola madre, quella marcerà”.
 Marcerà, marceranno: e la domanda sarà sempre la stessa. Semplice e drammatica. “Adonde estan?”. Dove sono? Dove sono i loro figli? Loro continueranno a ripetere questa domanda, senza mai rassegnarsi.
E io aggiungerò la mia voce alla loro.
Non sono pazze, queste donne. Ancora oggi rappresentano la coscienza critica di questo paese. La memoria viva di questo paese, dopo esserne state l’unica voce che raccoglieva e denunciava l’orrore di ciò che accadeva.
Non potevano stare in silenzio e non potevano stare ferme. Quando fu loro proibito di rimanere davanti alla Casa Rosada, sede del governo, cominciarono a camminare in cerchio. Una fila infinita, senza soluzione di continuità.
In questo modo hanno conquistato il rispetto e l'ammirazione del mondo intero. I militari non sono riuscite a ridurle al silenzio.
Più volte caricate dalla polizia, picchiate e arrestate, tre di loro hanno seguito la sorte dei loro figli. 
Non hanno scelto ciò che si è abbattuto su di loro, ma ne hanno assunto la responsabilità, trasformandola in scelta etica, in un non poter essere altrimenti.
E oggi, l'ho visto con i miei occhi: ogni volta che arrivano in piazza la gente applaude, il popolo le abbraccia e le dà il benvenuto.
La piazza è diventata la loro piazza. Se oggi è possibile pensare al riscatto etico del paese è grazie alla loro costanza, alla loro tenacia.
Madri e donne. Se i militari non avessero fato l’errore di sottovalutare le donne argentine, molte cose non si sarebbero sapute e quella sarebbe stata un’altra tranquilla macelleria del Novecento.
Un altro errore fu non restituire i cadaveri. All’inizio parve una mossa sensata. In realtà credo che proprio il fatto di non dare un corpo e una tomba su cui piangere, su cui elaborare il lutto, abbia contribuito non poco a scatenare questa ribellione unica al mondo. Reazione che, di fatto, ha determinato anche la fine della dittatura e la sua sconfitta.
Grandi invece sono le responsabilità degli italiani che ricoprivano cariche e posti autorevoli. Politici, diplomatici, gerarchie cattoliche non solo non hanno fatto nulla per impedire quella che è stata la strage più grande di italiani dopo la seconda guerra mondiale.
Poi con una vergognosa decisione politica si è chiusa la questione. E invece sarebbe molto importante continuare i processi e riaprirne di nuovi se necessario, anche in Italia.