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domenica 22 maggio 2011

Chi ha paura dei referendum?





Più rifletto sul voto di domenica e più cresce in me un senso di gioia e di speranza. Non ho le traveggole, non ho scambiato i sogni con la realtà, per una volta in Italia hanno davvero vinto la lealtà, la competenza, la politica intesa come servizio, l’energia delle nuove generazioni. E davvero hanno perso l’arroganza,  l’insulto, la prepotenza. i candidati di plastica da tv del pomeriggio, la rabbia che acceca modello Santanchè, Sallusti e gli altri servitori del Cavaliere.
E per dirla con tutta franchezza: ha torto chi dice che questo risultato era previsto.
Mi auguro il Pd sappia leggere nel voto una fase nuova della politica italiana. Anche perché questo mi sembra un voto che rimette in circolo molte energie fino a ieri disperse, che riassorbe l’astensione, che premia la sinistra assai più del centro. La cui moderazione, del resto, ha dato punti a quella dei sedicenti moderati.
E adesso al lavoro, perché siamo appena all’inizio. Dopo le città il governo. E si vada finalmente a votare per i referendum. La parola ai cittadini, alzi la mano chi ne ha paura.
E poi Arezzo.
Faccio subito i miei complimenti a Giuseppe Fanfani. Anche se con una percentuale inferiore a quella ottenuta alle scorse elezioni  è riuscito a strappare una bella vittoria, non concedendo chance alla platea clamorosamente divisa e votata al suicidio del centro destra aretino.
Ma siccome guardo al futuro, alle sfide che ci attendono nelle prossime settimane, io prima ancora che di scenari politici voglio parlare di acqua e di referendum.
Fanfani è  una persona intelligente e non avrebbe firmato per il referendum abrogativo dei processi di privatizzazione se non fosse convinto di avviare un processo per riprendersi la gestione dell’acqua.
Intendiamoci, anche io sono un pentito della privatizzazione. L’importante è riconoscerlo e fare un passo avanti.
Oggi per cambiare il referendum è lo strumento più adeguato (per la partecipazione), anche se non il solo per far riappropriare interamente dalla comunità di un bene cosi prezioso.
 Ho parlato in un precedente articolo della grande mobilitazione mondiale per l’acqua. Acqua buona e per tutti nel mondo. Ora è il momento di una riflessione sull’acqua di casa nostra e sul bisogno urgente di farla tornare interamente nelle mani del pubblico.
La Toscana e' la regione dove l'acqua per uso domestico costa di più in Italia, con una spesa media annua di 330 euro, a fronte di una spesa media nazionale pari a 253 euro. Sono toscane ben sette tra le 10 città più care: in assoluto Arezzo, quindi Firenze, Pistoia, Prato, Livorno, Grosseto, Siena.
Sono dati diffusi recentemente da importanti riviste, economiche e non solo. In media, nell'ultimo anno l'incremento tariffario registrato in Toscana e' stato del 5,8%, leggermente superiore a quanto registrato a livello nazionale (5,4%).
Consola almeno il fatto che Arezzo, e meno male, non ha richiesto deroghe. Questo vuol dire che abbiamo un ottima acqua.
Abbiamo avuto anche una buona gestione, ma questo non toglie nulla alla necessità di essere coerenti. Avevo avuto l’impressione che il Pd aretino avesse preso una posizione nuova e coraggiosa affiancandosi ai partiti della sinistra e all’Italia dei Valori nell’iniziativa referendaria.
Poi non ne ho saputo più nulla. Forse hanno fatto marcia indietro?
Quando si ha il coraggio di cambiare occorre farlo fino in fondo, e la gente non capisce più il gioco delle convenienze e degli equilibrismi per non scontentare qualcuno.
Ora servono parole chiare e iniziativa concreta per portare la gente al voto referendario. Serve subito darsi una mossa.  (titobarbini@libero.it)

domenica 15 maggio 2011

La lezione di Mitterand


I socialisti francesi celebrano in questi giorni  il trentesimo anniversario della vittoria di Francois Mitterand. C'ero anch'io, quel giorno, in cui questa grande figura della politica francese ed europea si insediava come presidente della Repubblica. C'ero anch'io, perché di Mitterand ero amico. Qualcuno se n'è ricordato e mi ha anche invitato, per celebrare questo anniversario. Purtroppo non potrò recarmi a Parigi, però voglio ricordare quel giorno e quello che ha significato per me e per tanti di noi.
E dunque, il 10 maggio 1981 un socialista venne eletto all’Eliseo e ci rimase 14 anni. Dopo di lui la sinistra  non riuscirà più a vincere. Né Lionel Jospin né Sègoléne Royal saranno capaci di sconfiggere la destra. Oggi, a un anno dalle prossime elezioni presidenziali e a qualche mese dalle primarie nelle quali i socialisti sceglieranno il loro candidato, il ricordo di quella vittoria diventa importante.

Una celebrazione rituale? L’impressione è piuttosto che i socialisti cerchino un’ispirazione, provino a riconquistare un’eredità andata perduta. e indubbiamente ne hanno bisogno.
 La notizia dell'arresto a New York del direttore del Fondo Monetario Internazionale, con l'accusa infamante di stupro,  e potenziale candidato socialista alle prossime presidenziali francesi rende ancora più difficile questa ripresa.
E allora è questa la domanda da farsi: può davvero aiutarli il ritorno al pensiero e all'opera di Francois Mitterrand, a quella stagione straordinaria in cui non si ebbe paura di scelte coraggiose e addirittura controcorrente del neo presidente, come fu quella di abolire la pena di morte (la maggioranza dei francesi non era d’accordo)?
Nelle analisi si scava nel passato, si ricordano le virtù del presidente socialista. Gli storici parlano dell’uomo che voleva “dare tempo al tempo” e non aveva paura della lentezza. 
Io vorrei ricordare il politico che credeva più nel buon senso che nei sondaggi.
Quando gli parlavo della situazione italiana mi richiamava sempre alla determinazione ad andare avanti con ottimismo  anche quando amici e nemici prevedevano la disfatta.

Ma con tutto questo a quella domanda devo rispondere in modo che forse deluderà qualcuno. Le celebrazioni sono sentite, ma l’impressione è che l’eredità di Francois Mitterand oggi possa aiutare poco i socialisti francesi. Che alle prossime elezioni e soprattutto dopo, se vinceranno (e non è improbabile), dovranno cavarsela da soli.
Mitterand non aveva di fronte a sé una globalizzazione che ha destrutturato il mercato del lavoro e cancellato gran parte della fiducia dei francesi nel loro Stato. Mitterand non ha assistito all’allontanamento di parte consistente dell’elettorato popolare dalla sinistra come invece è accaduto per la sinistra italiana e oggi, drammaticamente per il PD. Quando ha governato era ancora vitale la via francese all’integrazione degli immigrati. E non c’era un Fronte nazionale che oggi, come la Lega in Italia, toglie spazio e voti alla sinistra fra gli operai e nelle periferie  cavalcando la paura dello straniero.

La destra contro cui il presidente francese combatté e vinse era quella laica, repubblicana erede del gollismo e del conservatorismo francese, rispettosa dello Stato e delle istituzioni.
La nostra destra, poi, è quella di Berlusconi e di Bossi,  pronta cambiare le istituzioni, nemica del multiculturalismo, attenta a progetti di espulsione più che di integrazione, legata a doppio filo, e con evidente mancanza di scrupoli, a tutto ciò che distrugge valori e riferimenti alla Costituzione.
Ho l’impressione che il berlusconismo sia sul viale del tramonto ma la strada per vincere e per governare è ancora lunga.  Che le ricette e le risposte del passato, anche le migliori, quelle che Mitterand seppe dare alla crisi economica degli anni Ottanta e alla disoccupazione che si era quadruplicata, siano oggi improponibili.

Se il Mitterand da celebrare è quello del maggio 1981 quello che oggi può ancora dare molto a tutta la sinistra europea appare quello del giugno 1971, il segretario socialista che superò le divisioni, le barriere e i tabù, che volle a sinistra pluralismo politico e culturale, che seppe unificare senza chiedere abiure e rinunce.
Il Mitterand che rifondò la sinistra. E che poi governò la Francia. Forse di tutto questo abbiamo ancora bisogno in Italia.



mercoledì 4 maggio 2011

Ritorno in Vietnam




La notte calda e piovosa del sud mi ha accompagnato per un lungo tratto, dopo aver lasciato Saigon, per risalire lungo la costa del Mar della Cina, verso Huè, l’antica capitale del Vietnam.
Ancora una volta mi sono fidato del mio istinto, abbandonandomi al privilegio del viaggiatore che non ha tappe prefissate e tempi contingentati.
Mi hanno parlato bene di Hoi An, una piccola città prima di Huè. Dicono che sia la più autentica di tutto il Vietnam. A naso valeva la pena lasciare l’affollata corriera che mi ha cullato per alcune centinaia di chilometri e tentare questo fuori programma.
E l’istinto non mi ha ingannato.
Hoi An mi ha catturato con la sua poetica bellezza che pare un tappeto volante per trasportarti verso altre epoche, verso altri regni. È un piacere perdersi nelle sue strade animate, colorate da lanterne di seta, su cui si affacciano antichi edifici con portali di legno scolpiti.
Questo è un pezzetto di Asia sfuggito a un destino che sembra comune a un intero continente segnato da una modernizzazione selvaggia, che si traduce in cancellazione del passato, sradicamento, appiattimento di ogni differenza.
Merito anche degli amministratori del posto, certo, che sono stati bravi a vincolare il vecchio centro storico e a consentire solo restauri conservativi, a dimostrazione che il futuro non è, non deve essere sempre fatto solo di fast-food e banche, di pub e centri commerciali.
Hoi An, però, è di più. È una splendida contaminazione di stili e storie diverse, la prova provata che l’autentica ricchezza sgorga dall’incrocio, dalla mescolanza, dalla sovrapposizione.
Qui la cultura vietnamita raccoglie l’eredità cinese e quella giapponese, senza rigettare il passato coloniale. Il fiume, torbido e immobile, è una vena possente che dona la vita a tutti. Sulle sue sponde, il mercato del pesce è un intrigante palpitare di gesti e di voci. L’acqua e la terra, che qui si incontrano, sono un simbolo di quello che Hoi An è stata e di quello che spero sarà.
Non so nemmeno io quanto tempo sono rimasto fermo, incantato e commosso davanti a un antico ponte coperto costruito dalla comunità giapponese oltre mezzo millennio fa. Da allora è rimasto intatto, con una scimmia e un cane di pietra che continuano a fare la guardia.
Non ha le pretese di tante nostre costruzioni, non sfoggia né potenza né arditezze tecnologiche, anzi pare quasi scusarsi di essere lì, di turbare con la sua presenza l’ordine naturale delle cose: eppure è lì, è ancora lì.
Nessun invasore si è sognato di buttarlo giù, e magari di ricostruirlo, solo per il gusto di sentirselo più suo. 
A un centinaio di chilometri da Hoi An c’è il villaggio di My Lai. Ne avete sentito parlare?
È un nome che dovremmo imprimerci ben bene, tanto per scongiurare la tentazione di attribuire la barbarie solo agli “altri”, a chi non appartiene alla nostra stessa civiltà.
Fa bene parlare di My Lai, un posto che puoi trovare solo su una cartina molto dettagliata. Fa bene dirsi: è qui che voglio andare.
Qui, anche se My Lai non può offrire le bellezze di Hoi An, ma solo una storia che strizza il cuore.Fa bene parlare di My Lai, un posto che puoi trovare solo su una cartina molto dettagliata. Fa bene dirsi: è qui che voglio andare.
Perché il Vietnam di oggi, c’è poco da fare, è anche un passato che non si cicatrizza, un presente con ferite ancora aperte.
Il Vietnam è la linea delle colline che ti si presentano davanti spoglie, senza un albero, perché nessun albero è ricresciuto dopo le devastazioni del napalm; è la cifra pazzesca delle malformazioni congenite, ancora oggi, perché gli effetti di certe armi si pagano anche a distanza di anni, perché ci sono guerre che proseguono anche dopo il cessate il fuoco. 
 Mentre cercavo di raggiungere My Lai, con un mezzo di fortuna, su una strada che era solo un’idea di strada, ho frugato nella mia memoria.
Era l’alba di una mattina di estate e solo ora mi viene in mente che parecchi massacri si sono consumati all’alba di una bella mattina: come a Sant’Anna di Stazzema, da noi, sull’altra faccia del pianeta. 
Un plotone di marines, agli ordini di un giovane tenente di nome Calley, piombò su My Lai.
I soldati che dovevano regalare al Vietnam la libertà e la democrazia fecero terra bruciata con i lanciafiamme e le granate, mitragliarono ad altezza d’uomo e di bambino.
Quel giorno furono scannate cinquecento persone inermi. Quasi tutti vecchi, donne, bambini: come a Sant’Anna, appunto.
Gli americani ebbero solo un ferito, un bravo ragazzo che si sparò a un piede per non partecipare al massacro.
Negli Stati Uniti si è continuato per anni a dibattere attorno alle responsabilità del tenente e di quel plotone maledetto. E tutto sommato è proprio questo che ci piace di quel paese, capace di commettere grandi nefandezze ma poi di affrontare con coraggio le sue colpe, senza abbandonarsi all’istinto del colpo di spugna una volta per tutte.
Certo, fa pensare My Lai.
Fa pensare a come ci si riempia la bocca di tante parole belle e importanti, a come ci si senta legittimati a difendere un ordine internazionale che non è certo di tutti, a come si arrivi persino a esportare guerre preventive ammantandole di belle parole.
Quanto a me, dovevo venirci, qui, a My Lai.
Dovevo vedere con i miei occhi, anche se in realtà c’è ben poco da vedere, tranne i resti delle capanne bruciate e degli attrezzi che da quel giorno sono rimasti a terra, a testimoniare, assieme a un monumento alle vittime, cosa avvenne quel mattino.
Dovevo respirare l’aria di My Lai. Dovevo provare stupore e sgomento per la quiete di oggi, per questo senso di pace, per queste risaie che compongono un mosaico di verdi diversi, per questa luce che ti abbaglia e ti rasserena.
La stessa di quel mattino d’estate.