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sabato 22 ottobre 2011

Don Patagonia


Qualche appunto su “Il Cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia”
Sauro Sorini



Ballano tenendosi  per mano, i compagni di viaggio evocati da Tito Barbini nel suo ultimo libro “Il cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia”.
Danzano in cerchio sotto la volta del cielo - come nella “Danza” di H.Matisse (1910) -  Francisco Coloane, Bruce Chatwin, Louis Sepulveda, Antoine de Saint-Exupery, i narratori celebri e appassionati che l’autore ha radunato idealmente vicino a sé per trasformare il viaggio sulle tracce di Alberto Maria De Agostini in Patagonia e nella Terra del Fuoco in un intreccio di biografie, di storie minacciate dall’oblio del tempo, di testimonianze  civili.
L’eco delle loro parole, e quello delle pagine pressoché sconosciute del prete salesiano, accompagnano Barbini lungo il cammino nelle terre estreme del Sudamerica. E la loro vicinanza è tanto autentica, in questo peregrinare struggente e talora  gravido di malinconia, che le parole si scambiano, i racconti si inseguono e si toccano, le voci si sovrappongono; e gli occhi sono gli stessi occhi che vedono le stesse immagini, solo distinte dallo scarto di tempo che giustifica ogni spaesamento dell’anima.
Ma non si coglie a fondo il valore del libro -  certo non un racconto biografico in senso stretto - se non si presta attenzione alle “ombre” del titolo che popolano il viaggio.  Sono le ombre lunghe che  si riverberano sulle coscienze civili annebbiate dall’arroganza del potere nelle sue varie forme (il regime, la chiesa assoggettata ai militari, gli invasori nel nome del progresso civile): sono le ombre dei nativi, gli indios Alakalue, Yamana, Ona, depredati e uccisi in massa; sono le ombre dei figli della madri di Plaza de Mayo, che ancora oggi ci rivolgono la loro straziante domanda (“Donde estan?”);  sono le ombre degli emigranti del ‘900, di cui non si trova traccia neppure nei libri di storia. E sono anche le ombre di figure inedite e singolari come quella di Severino Di Giovanni, anarchico idealista di origini marchigiane,  fucilato negli anni ’30 per ordine del presidente argentino.
Attraverso la ricostruzione dell’ attività e della personalità di Alberto Maria De Agostini, esploratore, fotografo e antropologo, salesiano scomodo (accusò esplicitamente il governatore Senoret delle persecuzioni degli indios), scrittore capace di restituire la mirabile essenza di luoghi incontaminati, Tito Barbini rinnova un legame profondo con le terre ai confini del mondo che hanno mutato negli anni il senso delle sua stessa esistenza; al punto che questa ultima fatica letteraria, per densità narrativa e  partecipazione emotiva,  sembra contenere e racchiudere i precedenti viaggi, i taccuini già scritti, le esplorazioni intime già svolte: ma con una maggiore acquiescenza nei confronti delle inquietudini proprie dell’autore, che qui pare pervaso da quella forma di serenità d’animo che - come  suggerì Borges -  trova, nella  sospensione tra la gioia e la pena, la sua rara intensità.
La consapevolezza  amara e non taciuta, che i paesaggi  incontaminati di padre De Agostini non esistono più  (“Scorgo i profili ormai stanchi della sua cordigliera. Sembra che abbiano deciso di non difendersi più dall’attacco dei nuovi tempi. (…) Nel porto sono ancorate le gloriose rompighiaccio dell’ex marina sovietica e una luccicante nave da crociera alta come un palazzo di dieci piani. Le nuove frontiere del turismo antartico o quasi. Una fila di turisti aspetta il turno per fotografarsi vicino al grande cartello che, al molo, avverte che sono arrivati alla fine del mondo”) sembra allontanare Barbini dalle insidie di costruire, sui luoghi dell’anima che gli hanno alimentato una scrittura fervida e mai scontata, una “mitologia  dell’altrove”, ad uso e consumo della fuga alla ricerca di sé stessi.
Dopo aver utilizzato le forme letterarie dell’autobiografia morale e del taccuino di viaggio, la narrazione di Tito Barbini lascia invece intravedere sviluppi coerenti verso modalità espressive in cui il resoconto di viaggio si fonde con il racconto d’invenzione, che a tratti affiora già in questo suo “Il cacciatore di ombre” , anche in una dimensione evocativa e perfino cinematografica (si legga, per esempio, la descrizione dello sbarco a Buenos Aires di De Agostini:  “E’ lui. Un ragazzo alto con un corpo spigoloso, costretto in una tonaca abbottonatissima fino a non poterne più uscire, con un paio di scarpe da montanaro. Munito di due braccia che usa come remi per farsi largo tra la folla della banchina”).
I lettori che lo apprezzano da tempo sanno che comunque si manterrà costante in Barbini il tratto più solido della sua dimensione narrativa:  una visione compassionevole del mondo e delle vicende degli uomini che non è mai asettica, ma muove con risolutezza dalla difesa dei diseredati e degli oppressi.  Ed è in tal senso che si può affermare che ciò che anima, nel profondo, il viaggiatore e lo scrittore insieme, è l’impegno e la passione civile della sua intera esistenza.  

domenica 9 ottobre 2011

Una nuova avventura


   Verso Casa

Ho imparato da tempo che ogni libro è come un viaggio per chi lo scrive.  Una cartina con cui orientarsi nella geografia della propria anima. Ho anche imparato che la scrittura è un arnese per scavare tra le cose che ci teniamo dentro, nascoste dietro la scorza dell’introversione e della timidezza.
Ogni libro che ho scritto segna un passo avanti come a  scandire l’incedere di un moto interiore.  
E cosi, dopo l’uscita del “Cacciatore di Ombre”, mi sono messo al lavoro per una nuova avventura.  Un nuovo viaggio, questa volta verso casa.
Eravamo noi, i bambini usciti dalla guerra, in una piccola città etrusca. Le mura la cingevano tutta, un ammasso di pietre arenarie disposte in forme severe e imponenti prima dagli etruschi e poi dai romani, e si faceva presto, almeno da casa mia, a raggiungere la campagna con le sue terrazze di viti e olivi e i greppi con il finocchio selvatico.
La sera, quando mi coricavo, sentivo abbaiare i cani e la mattina d’estate le cicale frinivano incessantemente dai castagni del grande spiazzo che chiamavano mercato.  Le strade fuori dalle mura ancora si perdevano in sentieri sterrati contornati da alberi che, nelle loro stagioni, si caricavano di frutti. Era un buon posto per viverci, dove tutti si conoscevano e dove tutti si salutavano.
Da bambino non pensavo che il mondo fuori da quelle mura fosse accogliente, anzi pensavo che con la crescita si spalancassero gli abissi e che la specie umana avrebbe deciso di trascendere se stessa e mutarsi in qualcos’altro. E’ stata la fantasia del viaggio a ricondurmi sulla buona strada.  Ancora oggi mi rasserena pensare che le cose avrebbero preso un’altra piega se fossi rimasto prigioniero di quelle mura.
Alla fine me ne sono andato e, oggi, guardandomi indietro posso dire a me stesso che forse poteva andare peggio. Insomma, alla fine, sono contento di essere diventato cosi.

E allora ho deciso di mettermi sulle mie tracce. L’idea mi piace. Raggiungere i luoghi della mia infanzia, dove sono vissuto ma anche dove sono andato. Insomma, aggirarsi dentro di me.
I narratori di viaggi sono come i marinai di una volta, girano il mondo ma poi, quando viene il momento, tornano a casa. 
Quelle parti del mondo che hanno segnato i miei anni. Certo, quei luoghi sono cambiati e non sono più gli stessi. Oggi sono abitati da un’umanità smemorata, incerta e confusa.  Non ritrovo più la comunità di un tempo. Tutto è cambiato e non in meglio.
Rischio di andare incontro a grandi delusioni, a incontri con conoscenti che non ricordano, poco o nulla interessati alla mia ricerca.  Però, se quegli anni riuscissi a ritrovarli. Ripercorrerli, tenendomi per mano, non lasciarmi fuggire quando vorrei abbandonare l’impresa ma far salire la commozione assieme alla tenacia e alla passione.
Perché lo faccio?
Sono tante le ragioni inconfessabili ma quello che cerco sta in quei luoghi. La mia identità storicizzata in un viaggio che volge alla fine e che torna a riaffacciasi al suo inizio, per quello che può contare nella memoria degli altri.  Serve a me e spero serva ai miei figli e ai miei nipoti.
Restituire gli odori, le facce, i sapori. Non solo. Tenere insieme una serie di anelli che rischiano di spezzarsi.  E poi sento il bisogno di cercare il punto esatto in cui ciò che si è vissuto incontra ciò che si è scritto. Non leggo mai gli oroscopi ma oggi mi è caduto l’occhio su quello dell’’Internazionale e ho letto una specie di ammonimento: “…non tornare mai nel posto a cui appartenevi in passato. Va verso quello a cui apparterrai in futuro…” Una frase senza senso ? Quando mi fermo dopo un viaggio e dico: “Non c’è altro da vedere” so perfettamente che non è vero.
Bisogna ricominciare il viaggio, sempre. Le cose che hai visto la mattina non sono più le stesse della sera  e gli angoli che hai scoperto sono diversi se vengono scorti dalla parte opposta.