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sabato 22 gennaio 2011

Quei comunisti prima di Berlusconi




Sui novant’anni dalla fondazione del PCI si è aperta a Roma una bellissima mostra. Sono andato a vederla e mi sono commosso.
È così: e finisce che non riesco mai completamente a disfarmi del bagaglio delle domande. Piuttosto me le porto dietro, appiccicate come una seconda pelle.
 Volente o nolente: perché il mio percorso di oggi è anche lo specchio del mio passato. Ed è un peccato che il mio passato non se ne stia buono là dove se ne dovrebbe stare, come un anziano cane che ti ha accompagnato per una vita e ora non si muove più dalla sua cuccia. 
Ecco, una delle domande che più mi rovista dentro riguarda il senso del mio cammino politico. Mio e di milioni e milioni di persone che con me, negli anni, nei decenni, hanno coltivato quell’enorme speranza – com’altro chiamarla? – cristallizzata in un termine che per altri racchiudeva invece un incubo.
Una parola sola: comunismo.
Sì, lo so che oggi non è particolarmente di moda dirlo, se non nella forma dell’abiura.
Io però lo dico: una volta, qualche tempo fa, ero comunista.
Sono nato in una famiglia comunista, ho frequentato una scuola di partito comunista, sono stato militante comunista, sindaco comunista di Cortona, assessore comunista della Toscana… Da giovane ho distribuito migliaia di volantini. Ho trascorso notti intere in discussioni, fino a che gli occhi non si chiudevano per la stanchezza e gli eccessi da tabacco. Ho partecipato a congressi e assemblee, direttivi e attivi, riunioni di sezione e feste dell’Unità, e quant’altro, quanto davvero, tanto che se ora mi guardo indietro la mia vita mi pare un fiume di parole in piena… Sono stato per anni nel Comitato Centrale del PCI . Ho conosciuto  uomini che hanno fatto la storia di questo paese. Uomini come Enrico Berlinguer. Ho persino incontrato Gorbaciov.
Ho studiato ho parlato, ho scherzato, mi sono accapigliato e poi mi sono riappacificato da comunista.
E poi, cosa è successo?
O peggio ancora: e adesso?  

Non voglio dire che parlo solo  della miseria umana e morale in cui Berlusconi ha trascinato il mio paese, è ovvio.
E questo non è il passato che posso elegantemente liquidare con una nuova tessera, una nuova appartenenza. Potrei farlo, dovrei farlo, ma non basta.
Perché qui c’è la vita in ballo: la mia vita.
La mia vita e, assieme, una gigantesca tragedia: quella dei paesi che sono stati attraversati, o meglio dire schiacciati, da quel socialismo “reale” tanto crudelmente diverso dal socialismo dei miei sogni.
Ecco, questo è stato un buon motivo per partire e scrivere libri.
Dalle macerie del muro di Berlino verso l’Est europeo e poi verso l’Asia. E quindi ancora dalla Cina di oggi, falce e martello e capitalismo rampante, fino ai Balcani del muro contro muro di popoli e religioni.
Un viaggio a ritroso, alla ricerca di tracce di passato, fallimenti e delusioni della grande utopia comunista
Ma anche il viaggio di chi, per anni, nell’età dei conflitti, ha creduto che in quella utopia si annidassero libertà e democrazia, la giustizia assieme all’eguaglianza.
 Il viaggio è in corso, ma nel mio bagaglio c’è interamente la grande esperienza che ho trascorso nel PCI. Un grande partito democratico e nazionale che nulla aveva a che fare con le tragedie del comunismo ma i suoi silenzi e, per troppi anni, la mancanza di coraggio, lo hanno travolto nel suo fallimento.
                                   
Il comunismo è fallito, va bene: e poi?
Le ragioni che hanno alimentato il comunismo, e che il comunismo ha ridotto a torto, non è che siano venute meno.  Bobbio lo diceva benissimo già nel 1989, con le macerie del muro di Berlino ancora fumanti.
«La democrazia ha vinto la sfida sul comunismo storico ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista? Ora che di barbari non ce ne sono più che cosa sarà di noi senza barbari?»
Già: cosa sarà di noi?
Sono passati più di venti anni e a questa domanda ancora non ho una risposta. 

Non ho una risposta in questa Italia immobile e ingiusta. Dove ai giovani è stato rubato il futuro, dove un vecchio affetto da satiriasi compulsiva, accerchiato da una corte di ruffiani e papponi, urla contro la magistratura e nasconde il paese reale dietro la vergogna dei suoi festini e delle sue menzogne.
 Però ho ben presente anche un’esortazione che non ha perso di attualità. Ancora una volta, sono parole di Bertolt Brecht:
«Cambia il mondo, ce n’è bisogno».

venerdì 7 gennaio 2011

L'Argentina di Che Guevara




E dunque, qui dovevo fermarmi, per forza. Sono a Cordoba, la città dove è nato Che Guevara. Non sono un nostalgico, ma non potevo mancare.
Sono quarant’anni che il  Che è morto e ancora non trovo nemmeno qui, nella sua città natale, come in tutta l’Argentina, il giusto riconoscimento a quello che ritengo il loro figlio più conosciuto al mondo. E non credo di sbagliarmi.
Più di Evita Peron, di Gardel  di Borges o dello stesso Maradona.
La cosa singolare è che il Che, ancora oggi, viene un po’ usato da tutti nella sinistra della politica argentina. Perfino una parte del movimento peronista, che lo accosta a Peron e alla amata Evita.
Le foto che ho scattato a una manifestazione possono rendere l’idea.
E allora, quando il Che morì in Bolivia, così come negli anni immediatamente successivi, le contingenze storiche e le passioni politiche impedirono, a coloro che rifiutavano di fare dell’Argentina un’altra Cuba un’analisi serena della figura e dell’opera del “comandante”.
Oggi a tanti anni di distanza, una simile analisi potrebbe essere fatta. E
allora cos'è che rimane, qual è la lezione vera che si può trarre da una vita che generazione dopo generazione  è diventato il mito più grande della storia moderna?
Proverò a rispondere così. Ciò che rimane non è nei sogni ormai ingialliti di un marxismo morto o agonizzante, ma nell’esigenza di un rovesciamento radicale della società e del potere, un’immagine della rivoluzione come atto assoluto, come gesto puro ben oltre gli angusti limiti del marxismo storico.
Ecco, Che Guevara come rivoluzionario assoluto: così mi piace ricordarlo e
così generazioni e generazioni di giovani ne hanno fatto un simbolo virtuale.
Tutto ciò che è antiautoritario e liberale passa attraverso la sua immagine.
Il Che è l'alfiere di una utopia che proprio nella sua sconfitta realizza  i suoi valori morali, sottraendosi al banale e corruttore compito della gestione di una vittoria che non poteva venire.
Penso questo mentre sto seduto davanti al liceo che il Che ha frequentato
quando era ragazzo a Cordoba.
Dalla panchina assolata riesco a vedere i ragazzi che sciamano fuori e
qualcuno porta con sè, nella maglietta o appiccicata allo zainetto dei libri, proprio l’immagine del Che. Quella bellissima immagine con lo sguardo diritto e il sorriso dolce.
Ha ragione Guccini “gli eroi sono sempre giovani e belli”.
Entro dentro la scuola e trovo scolpita in una parete una poesia di Rafael
Alberti. Eccola qui. 

Ti ho conosciuto bambino
lì, in quella terra di Cordoba argentina
mentre giocavi tra i pioppi e il granturco,
le mucche delle vecchie fattorie, i braccianti

Non ti ho più rivisto, finché un giorno seppi
che eri luce insanguinata, il nord,
quella stella che ogni attimo bisogna guardare
per sapere dove ci troviamo

Non c’entra nulla con Che Guevara però il pensiero vola al mio paese e ad un’
altra rivoluzione: quella berlusconiana. 
Che pena. Che tempi. Buon anno a tutti.