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mercoledì 29 settembre 2010

Ritorno al sogno

Me la ricordo come fosse ora, quella sera. Mi ero fermato su una piccola insenatura di un promontorio ispido e ventoso. Una delle quattro case di pescatori ospitava per la notte i rari viaggiatori. Era l’estate australe del 2005. Ero solo. Soprattutto, ero a Capo Horn.
Fin lì ero arrivato con uno sgangherato cargo postale, lento e incerto nel navigare, che consegnava la posta e le merci partendo da Punta Arenas, nell’estremo Cile meridionale, per arrivare fino alle isole che ora potevo scorgere in lontananza. E non so spiegare questa sensa-zione, però sentivo che non avrei potuto essere da nessun’altra parte, se non proprio lì dove ero.
L’indomani, in realtà avrei dovuto partire. Verso nord, purtroppo: perché quel posto fuori dal mondo e dove il mondo sembrava ormai finito, era davvero il punto più remoto raggiunto durante alcuni mesi tra- scorsi a girovagare per l’America latina; e perché oramai mi restavano solo i passi del ritorno, ognuno dei quali mi avrebbe portato un po’ più vicino a casa.
Cioè, realtà mi aspettava ancora Ushuaia, la città più a sud del mondo, e che quindi era quasi paradossale
pensare a nord; mi aspettava la Terra del Fuoco e quel- l’altra distesa, la Patagonia, dove anche le storie e le narrazioni diventano estreme.
Dal crinale sul quale mi ero sistemato, era stato facile smarrirmi nella contemplazione del cielo sopra di me; e non mi stancavo di ammirare la più bella delle costellazioni, la Croce del Sud, per poi rimirarla anche sotto di me, rispecchiata nell’altra immensità che si spalancava davanti a me, quella dell’Oceano.
Spesso, anche d’estate, le notti laggiù sono buie e tempestose, ma questo dicembre dicembre, perché è questo il mese che regala alle ultime propaggini australi un po’ di tepore questo dicembre, dicevo, mi aveva riservato l’incanto di un cielo luminoso. Un tripudio di stelle quale non avevo mai visto e leggermente discosta, come un’ospite che stenta a sentirsi pienamente a suo agio, l’enigma della luna australe.
Splendeva in alto, la luna, e già spingeva la notte verso una nuova alba, perché la notte, nell’estate australe, è cedevole ed effimera, sparisce che pare quasi non sia cominciata: quattro ore, forse nemmeno, reggono le oscurità a queste latitudini.
E forse fu proprio grazie a quel disco bianco magico e strano che per qualche istante mi rabbrividire come un Pierrot stregato dalla luna che riuscii a scoprirmi parte di qualcosa di enormemente più grande di me: e questa sensazione mi rinnovò un desiderio sepolto.
Tornai a rimirare la Croce del Sud, che per me è sempre stata sinonimo di libertà, di quella libertà che si assapora nella distanza e negli spazi aperti. Fosse solo per questo: che la Croce del Sud non appartiene ai miei cieli, si può scorgere solo nella parte meridionale del pianeta.
Ma certo non è solo questo, a far sì che me la porti nel cuore.
Mi piace che non sia una costellazione vistosa, mi verrebbe da dire ingombrante. Mi piace che sia tra le più piccole, con le sue quattro stelle colorate e una quinta, più piccolina e pallida, che pare vagare spaesata tra i bracci della croce: per questo da queste parti la chiamano Intrometida, come si fosse intrufolata in una festa a cui nessuno l’ha invitata.
Però fu guardando la Magellanica, l’ultima stella, quella più luminosa e più vicina al polo Sud, che mi sembrò di scorgere nel cielo il riflesso e il chiarore del continente antartico.
E fu proprio in quell’istante che il desiderio spiccò il volo e divenne una sorte di solenne promessa fatta a me stesso: un giorno o l’altro sarei arrivato laggiù, laggiù nel mondo fuori del mondo; un giorno o l’altro avrei messo piede perfino in Antartide.
Poi, si sa, di promesse a se stessi se ne fanno tante. Molte si perdono nel cammino, sono un po’ come le buone intenzioni di cui è lastricata la strada per l’inferno...
Potevo immaginarmi in Antartide solo in un giorno molto lontano, così lontano da smarrirsi in un’altra vita. In realtà solo una possibilità, di quelle che è bello tenersi stretta anche se non ci credi: e mai avrei pensato di ripartire così presto...
E invece... invece... l'Antartide è stato il mio viaggio più bello.

venerdì 24 settembre 2010

GLI INDIOS LO CHIAMAVANO DON PATAGONIA



alberto maria de agostini


Il ragazzo con la tonaca e il basco nero è immerso nell’aria argentina dello stretto, solo sul ponte del traghetto, appoggiato al parapetto. La giornata è sempre più scura, fredda. C’è vento sull’acqua. Non ci sono altri rumori oltre a quello del vento e del barcone, il rumore di un vecchio motore a scoppio Ora Alberto non distingue quasi più i contorni delle montagne. Masse nere che incombono sulle acque. Si vedono affiorare dalla riva piccoli accampamenti con verticali colonne di fumo, che alle volte il mare gonfio nasconde. Come sarà la missione che mi sta aspettando? E come sarà questa terra ai confini del mondo? E i monti che scorgo da questo parapetto?
Il giovane sacerdote salesiano si ripeteva queste parole ancora una volta, mentre il suo lungo viaggio dall’Italia arrivava alla fine navigando lentamente nello stretto di Magellano. Alberto è ora accovacciato a prua, nella parte esposta al vento della piccola nave. Fa freddo ma sente di essere come a casa, nelle sue Alpi, l’aria fredda gli gela le ossa. Gli altri passeggeri preferiscono stare riparati nella cabina, lui è solo contro il vento e guarda verso l’oceano respirando insieme, a pieni polmoni, l’aria marina e il vento che viene dal Pacifico. È solo, ma la solitudine difende la sua emozione. Forse non poteva immaginare che quella terra avrebbe cambiato il suo destino.
L’acqua è mossa e pumblea. Di tanto in tanto arrivano agli occhi di Alberto i primi abitanti di quelle isole. Facce e corpi arcaici venuti dalla notte dei tempi, cosi confusi e sradicati che il giovane missionario avverte come prigionieri di una profonda tristezza.

Stanno silenziosi, sulla riva, non salutano e guardano. Lo sguardo sembra fissare quell’enorme canoa che porta ancora uomini bianchi sulla loro terra. E poi giunge,da dietro il fumo dei villaggi, l’acre odore della carne macellata e lasciata andare a male, l’abbaiare dei cani. Non sa ancora il giovane Alberto del “tiro al bersaglio”.Ci sono un’infinità di rapporti che indicano che nel corso dei primi decenni del secolo scorso, le navi che attraversavano lo Stretto di Magellano o la costa orientale ospitavano viaggiatori che si dilettavano a sparare a tutto ciò che si muoveva negli accampamenti degli indios. Si ignora, ancora oggi il numero delle vittime di questo sport dei bianchi.
Anche Darwin era passato da quelle parti.
Siamo nell’anno 1910, esattamente un secolo fa.
La navigazione è sempre più lenta, il motore della nave ha un respiro affannoso, incontra una piccola isola di sassi preistorici interamente ricoperta di leoni marini.
I maschi pesano quattrocento o cinquecento chili vivono in queste acque dalla notte dei tempi ma Alberto li vede per la prima volta. Enormi e fieri con la criniera sul groppone ruggiscono come i loro fratelli nella savana. Stanno ammassati a gruppi circondati dai loro harem di venti o trenta femmine. Sopra di loro, nelle rocce più in alto migliaia di cormorani immobili come statue di marmo.
Lembi di terra ghiacciata, emersa qua e là quasi per caso. Ora siamo in estare e Alberto pensa a come saranno queste terre in inverno con gli artigli del gelo antartico piantati su ogni forma di vita. E tutt’intorno, per sei mesi, buio , freddo e silenzio.
Correva l’anno 1910.
Un giovane prete della congregazione dei missionari salesiani sbarca nella Terra del Fuoco e scrive cosi la sua nuova vita. Una terra ignota, per lo più ancora da scoprire, percorsa dal vento e dal gelo, abitata da sparuti gruppi di indigeni e da una pessima comunità di avventurieri, finiti in culo al mondo per le ragioni più disparate.
La Patagonia era ancora un parola che evocava un mistero. La nave sta appena attraccando e il giovane Alberto ormai sentiva di avercela fatta. Questione di ore e sarebbe stato davanti al proprio futuro. Il futuro che ti aspetta a ventisei anni.


lunedì 20 settembre 2010

VIAGGIO A BERLINO CON I FANTASMI DI PIETRA DI KARL MARX ALLEE



Berlino è ancora un grande cantiere a cielo aperto. Dopo la riunificazione è cominciata la più grande operazione  di rinascita di una città dopo quella realizzata, sempre a Berlino , sulle macerie della seconda guerra mondiale. E ancora non è finita. I lavori proseguono e gli ultimi casermoni socialisti, con quei cubi di cemento che ricordano i pezzi di  una costruzione Lego, lasciano inesorabilmente spazio alle nuove forme dell'architettura moderna. Berlino non è certo povera di motivi di interesse e di seduzione per ogni genere di visitatore: non lo è mai stata.
Però oggi regala un’occasione irripetibile: la possibilità di compiere una sorta di pellegrinaggio in una città che cambia freneticamente, attraverso spazi conquistati e trasformati, idee che si trasformano in opere, squarci di meraviglia per un nuovo che è anche bello, architetture leggere e trasparenti che acquistano volume e fisionomia grazie ai progetti di maestri quali Rogers, Piano, Eisenman, Grassi.
Non credo che tutto questo durerà per molto tempo ancora: se non sei stato ancora a Berlino non perdere altro tempo.

E così ora cammino per questa città che, nel bene e nel male, è stata al centro delle tragedie e delle speranze, dei crimini e dei desideri di riscatto della nostra epoca. 
Guardo la Berlino che una volta c’era e che non c’è più, la Berlino protagonista della Storia e quella che dalla Storia è stata brutalizzata.
L’arietta frizzante, le vetrine illuminate, la gente che si affolla pacificamente alle fermate dei tram, la composta allegria degli imbiss - i chioschetti dove ti puoi sempre fermare per una birra e un panino al wurstel - l’eleganza dei ristoranti di Oranienburger Strasse… tutto questo certo non aiuta a capire.
Per quanto mi riguarda la testa mi gira a forza di pensieri. Mi ritrovo a Postdamer Platz e medito su quella che fu una terra di nessuno.
Mi godo la bellezza della cupola trasparente del Reichstag e ritorno all’incendio che un giorno appiccarono i nazisti, lugubre avvisaglia della successiva catastrofe.
Penso al 9 novembre del Muro fatto a pezzi, strappato con le mani, a martellate, a colpi di piccone, e solo dopo con le ruspe, però poi mi lascio folgorare dal ricordo di un altro 9 novembre, quello della Notte dei Cristalli: la notte di un’altra frenesia collettiva, quella della caccia all’ebreo e delle sinagoghe rase al suolo.
E godo della libertà ritrovata, ma non posso fare a meno di pensare alle tortuosità della Storia, alle sue crudeli contraddizioni, alle inesauribili possibilità di sofferenza che è in grado di infliggerci.
È finita l’epoca del socialismo, che sicuramente non è mai stato il Paradiso in terra, e la disillusione è già in agguato dietro l’angolo, perché anche l’Occidente non è rose è fiori, non è solo supermercati strapieni di delikatessen e pubblicità con sorrisi e promesse di felicità.  
È anche miseria, è anche fatica, è anche iniquità.
Pensi almeno di aver girato pagina una volta per tutte ed ecco che le città dell’est, soprattutto le periferie più degradate, si popolano di inquietanti bande naziste. E i “nostalgici”, chiamiamoli così, cominciano a entrare nei parlamenti regionali.
Proprio mentre sono qui viene pubblicato un’inquietante ricerca del centro studi della Spd, il grande partito socialdemocratico della Germania: almeno 15 tedeschi su cento, leggo, potrebbero riconoscersi in un partito di estrema destra, addirittura il 20 per cento coltiverebbe pregiudizi antisemiti…
Come se niente fosse successo… un colpo di spugna sulla tragedia più immane del Novecento.

Tutto è in movimento, in questa straordinaria città, tutto è pronto a stupirti perché cambia, non perché rimane uguale a se stesso.
A Berlino Est, però, resiste ancora un grande fantasma di pietra.
 La vecchia Stalin Allee, oggi Karl Marx Allee, è certamente la strada più ideologica della Germania e insieme una metafora della nostalgia.
Su questo grande viale, lungo due chilometri e largo più di cento metri, si affacciano gli esempi più classici dell’edilizia socialista. I palazzi, completamente restaurati e ben conservati, riprendono i canoni austeri e compatti dell’edilizia sovietica, senza tuttavia rimuovere completamente l’eredità architettonica della Berlino di Bismarck.
Nel complesso non è male, il colpo d’occhio è tutt’altro che sgradevole, almeno nella misura in cui è possibile serbare uno sguardo freddo, distaccato.
Se le emozioni prendono quota, come succede a me ora, il discorso è un altro.
Questa strada, lo so bene, per oltre cinquant’anni ha impegnato in estenuanti dibattiti urbanisti e architetti di tutto il mondo. Però quanto mi si agita dentro non è certo un dilemma estetico.
Oggi, quasi per un’intera giornata, l’ho percorsa avanti e indietro, all’ombra dei tigli, indugiando su particolari e pensieri. Più volte mi sono soffermato a contemplare i simboli che evocano il regime tramontato.
Anche in altre città della Germania orientale lapidi e monumenti sono stati risparmiati dalla furia iconoclasta, ed è giusto, perché la distruzione di oggi non aiuterà certo la memoria di domani.
Però tutto quello che si vede, che si respira, che si può perfino toccare in questa strada ricorda quel passato: assieme a quel poco che ormai rimane del Muro la Karl Marx Allee ci riporta davvero ai tempi della guerra fredda e dei blocchi contrapposti.
È solo in questa strada che si comprende davvero cos’era Berlino quando era divisa nel cielo e in terra, quando il Muro tagliava quartieri, separava famiglie, lasciava finire nel nulla strade che un tempo congiungevano.
Tutto mi ricorda qualcosa.
Le panchine dei giardinetti a lato, per esempio, sono decisamente affollate. A occuparle non sono i turisti, si capisce al volo, ma gli inquilini dei grandi palazzi che si affacciano sulla strada.
Fossimo in qualsiasi altra parte del pianeta, non ti verrebbe da pensare a nient’altro che a pensionati che ammazzano pigramente il loro tempo al tepore di un pallido sole nordico.
Però non si può abitare per caso in quella che un tempo portava orgogliosamente il nome di Stalin Allee.
Gli alloggi, qui, venivano assegnati a chi aveva acquisito particolari benemerenze nei confronti del regime e del partito. Un appartamento in questa strada era un premio. No, non necessariamente un privilegio riservato a carrieristi e opportunisti, perché c’era anche chi ci credeva, c’era chi avrebbe dato la vita per il socialismo…
Tra questi vecchietti probabilmente c’è anche qualcuno dei “pionieri” che nel dopoguerra accorsero a Berlino da volontari, per spazzare via le macerie e ricostruire una città degna di una patria nuova, di un uomo nuovo…

Proprio in questi giorni lungo la Karl Marx Allee si ricorda la Stalin Allee di un tempo con una serie di mostre fotografiche.
Tra tutte le immagini spicca, anche per dimensioni, quella della parata militare dell’ottobre 1989, in occasione del quarantesimo anniversario della nascita della Germania Est, cioè della DDR. 
È un’impressionante esibizione di forza: un esercito imponente che sfila tra masse in delirio.
Un trionfo al quale pare non mancare niente.
Mai vista tanta gente.
Un’enorme festa di popolo, davvero: e invece, a rivedere tutto col senno di poi, nient’altro che un funerale.
Le esequie di un regime anacronistico, fradicio nelle fondamenta, ormai incapace perfino di puntellarsi su qualche tentativo di autoriforma. 
La storia spesso è tragica, ma talvolta non manca di ironia. Un mese più tardi, solo un mese, e tutto questo sarebbe sparito, lo stesso Muro sarebbe stato fatto a pezzi!

giovedì 16 settembre 2010

in viaggio con Salgari




Fu proprio negli anni della mia infanzia che, per la prima volta, mi imbattei nel Mekong, o meglio nel suo nome, che mi riecheggiava come un suono esotico e affascinante, come il rintocco di una secolare campana di bronzo, un suono che mi piaceva sentirmi in bocca. Se ci rifletto solo un attimo di più, so anche dove avvenne questo incontro. E dove poteva essere, per un bambino del dopoguerra, in quella preistoria senza televisione e senza internet? Non poteva che accadere sui libri di Emilio Salgari. Si intitolava La città del re lebbroso e mi pare ancora di toccare quelle pagine pulsanti di emozioni. La spedizione nella foresta vergine, la città morta che come tutte le città morte cela il suo segreto e magari il suo tesoro, il magnifico elefante dalle zanne bianche e lunghissime.I ricordi ormai sono confusi – perché Salgari non si rilegge, piuttosto si custodisce come cosa cara la reminiscenza della sua lettura – però mi sembra che anche qui facesse capolino la maestosa tigre del Bengala.Devo a Salgari i primi assaggi di Oriente. Istantanee scattate dall’immaginazione, come quella, inquietante, del tempio della dea Khalì. Strangolatori e avventurieri, fachiri e pirati, esploratori e assassini. Nomi di una geografia fantastica che col tempo – con malinconia direi crescendo – si sono tradotti nei nomi di paesi reali: il Siam, la Birmania, la Cambogia, la Malesia.Più volte per Carnevale mi sono mascherato da pirata della Malesia. Costava poco, perché bastava una benda nera sull’occhio e un cappellaccio in testa.Erano anni difficili, la guerra era finita e noi, i bambini della strada e dell’oratorio, ci sentivamo grandi e responsabili, anche nel gioco. C’era l’ombra di Salgari, che si distendeva su quei giorni di Carnevale. Ma tornando a quelle letture la cosa che ora mi fa più impressione è che Salgari riuscisse a farmi entrare nei luoghi di cui scriveva, pur non avendovi mai messo piede.Il mio amico Paolo lo racconta in un suo libro, Gli occhi di Salgari,in cui ha narrato le imprese di uno scienziato-viaggiatore fiorentino,Odoardo Beccari, un uomo che ha esplorato in lungo e in largo le foreste della Malesia e le isole dei mari del Sud, facendosi amici i tagliatori di teste del Borneo o i cannibali della Nuova Guinea.Salgari, al contrario, quei posti non li vide mai, al massimo si imbarcò una volta per una navigazione sull’Adriatico da cui ritornò sfinito dal mal di mare e risoluto a rimanersene con i piedi ben a terra per tutto il resto della sua vita.Si faceva chiamare «capitano di lungo corso» Salgari, ma era solo una sua fantasia o un sussulto di amor proprio. Allo stesso modo girava in bicicletta per Verona con un turbante da marajà o si inventava battute di caccia alla tigre sulle colline di Torino a uso e consumo dei suoi figli.Però Salgari ha raccontato – e in questo modo ha regalato a tutti noi – il mondo che Beccari aveva visto con i suoi occhi. Occhi, mi spiega Paolo, che sono stati indispensabili perché un ragazzino come me si ritrovasse tra le mani quel mondo fantastico eppure anche vero in cui si dipanano le vicende di Sandokan, di Yanez, oppure di James Brooke.Oggi se penso a Salgari lo immagino inchiodato nella sua modesta abitazione, mentre intinge il pennino nella boccetta dell’inchiostro, con un atlante spalancato davanti e una nuova avventura in testa. Lo vedo alle prese con una pila di vecchi libri che narrano di paesi e popoli distanti, cronache e resoconti di viaggio scovati nelle biblioteche pubbliche, volumi di carta ingiallita e lacerata, tenuti insieme da rilegature consumate dal tempo.Era un forzato del lavoro, Salgari (posso chiamarlo Emilio?), un uomo che è passato attraverso un’infinità di sofferenze e di umiliazioni che hanno impastato una vita quotidiana non fatta certo di avventura.Sempre che avventura non fosse anche adempiere ai tremendi obblighi contrattuali con i suoi editori, solo per sbarcare il lunario.Così aveva scritto nel 1909, all’amico pittore Gamba:«La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno e alcune della notte e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle e subito spedire agli editori senza avere avuto il tempo di rileggere e di correggere». Già, i contratti lo obbligavano a scrivere tre libri ogni anno. Diciamo in tutto un migliaio di pagine in bella copia. Tre pagine ogni giorno e se una domenica voleva riposare, o se un giorno era preso dalla febbre, all’indomani le pagine da scrivere erano sei. Più il lavoro di direzione di un periodico di viaggi, più le novelle. Per aiutarsi cento sigarette al giorno. E una bottiglia di marsala che beveva da mattina a sera.Dopo di che si suicidò – scegliendo la fine atroce di un samurai di un’altra epoca – fu ritrovata una lettera in cui accusava i suoi editori di averlo condannato alla miseria e chiedeva loro di restituire qualcosa, per i suoi funerali e per la sua povera famiglia.Torti dimenticati, ormai. Torno a guardare Emilio e penso che alla resa dei conti la sua vita non è stata troppo diversa da quella di Odoardo, lo scienziato che si aggirò per continenti e paesi inesplorati. Beccari, il viaggiatore in carne e ossa, l’uomo mosso dall’irrequietezza, dalla smania di conoscere popoli e continenti, dalla voglia di toccare con mano. Salgari, il viaggiatore della fantasia, l’uomo per cui l’avventura non ha uno spazio fisico, ma solo gli orizzonti immensi che una mente, ben foraggiata dalle letture giuste, ci può regalare. Chi dei due è andato più lontano?».A questa domanda non so dare risposta. So solo che nel corso della mia vita mi sono sentito l’uno e l’altro. Sono stato e sono Emilio che con Odoardo va a braccetto, tra una chiacchiera e un gesto di stupore.

domenica 5 settembre 2010

Chatwin, quelle scarpe intorno al collo


Esiste una terra scontrosa, avara di se, innamorata del proprio silenzio, chiusa nella buccia della propria solitudine?

Si chiama Patagonia?

Alle volte mi viene da chiedermi cosa sia stato il viaggio Di Chatwin. Amavo da ragazzo passare ore intere davanti al mio mappamondo. Tracciavo itinerari di viaggi immaginari. Erano sempre le terre estreme a imprigionare la mia fantasia. La Patagonia, assieme alla Terra del Fuoco era sempre in mezzo. Giochi di un ragazzo che, tuttavia, nascevano dal bisogno di scoprire il mondo la dove il mondo sembrava finire. Più ancora: tante fortezze alla frontiera di un altro deserto dei Tartari cui ogni viaggiatore sperduto non sarebbe mai potuto tornare indietro. Come Chatwin il tenente Giovanni Drogo arriva in una terra estrema. Un’esplorazione fatta di lucide visioni, di ombre, di sussulti e misteri, di miti avulsi strappati a qualsiasi riferimento storico, universali perché fuori da ogni tempo. La Patagonia come la fortezza Bastiani. La fortezza è un avamposto al confine con il deserto. La Patagonia è il deserto. E come Drogo, Chatwin arriva in quella solitutine convinto di ripartirne presto. E’ sicuro di se, di avere tutta la vita davanti. Trascorreranno molti anni prima di rendersi conto che il tempo è fuggito e con esso la sua idea iniziale di Patagonia. Ho pensato spesso al bellissimo racconto di Buzzati. Vale la pena rileggerlo in queste terre, per riflettere e guardarsi dentro. L’idea dell’attesa, della speranza, prende anche me, mi tenta nei miei viaggi ma essa è un’idea fin troppo comoda. La ricerca d’indizi che ci possono far credere a questa possibilità è spesso un tentativo inconscio di dare un senso alla nostra immobilità , di giustificarla.

La ricerca delle tracce lasciate da Alberto De Agostini non mi impedisce di dare un’occhiata ogni tanto ai libri di Bruce Chatwin, soprattutto a In Patagonia.

Di Chatwin ho sempre presente una foto. Una di quelle foto che sembrano raccontare per intero una storia di vita: è lui, giovane, single, omosessuale, con le scarpe intorno al collo. Un sorriso dolce ma uno sguardo irraggiungibile, perso verso orizzonti che non ti comprendono.

Bisogna leggere Anatomia dell’irrequietezza per viaggiare con Chatwin alla scoperta di Chatwin. Forse in nessun altro libro o articolo è stato cosi vicino a rivelare che cosa stava al fondo del suo essere e della sua inquietudine di camminatore instancabile.

Come un uccello migratore Chatwin è passato volando sopra le terre immense della Patagonia. Talvolta si è fermato a guardare e descrivere la gente e i posti. I suoi racconti, le sue storie o i suoi schizzi di viaggio sono belli e avvincenti.

Eppure lo voglio dire: io sento e ho dentro di me un’altra Patagonia. E di questo persino mi vergogno. Faccio fatica a parlarne, quasi fosse una manifestazione di vanità o un reato di lesa maestà.

Insomma, sono anch’io convinto che In Patagonia cambiò radicalmente la concezione del racconto di viaggi. Dopo Chatwin i viaggi in America del sud, in Africa o in Australia sono stati compiuti da scrittori con lo stesso orrore del domicilio, la stessa irrequieta erranza, con la stessa disperata volontà di rompere gli schemi dell’incontro con l’altro, il diverso da te.

Tutto vero e non mi passa nemmeno lontanamente per la testa di muovere un rimprovero a Chatwin, sarebbe da parte mia una presunzione smisurata.

Ma ripeto: la Patagonia incollata al mio animo è diversa da quella descritta da Chatwin. D’altronde lui prima di essere un viaggiatore era uno scrittore. Per me forse vale il contrario.

Una volta ho letto una sua intervista, in cui spiegava che nessuna pretesa onestà descrittiva vale al punto da sacrificare un dettaglio inventato che migliori la storia. Questo non può non far pensare. Il viaggiatore non è lo scrittore, e viceversa. Bisogna capire quando parla l'uno, quando l'altro.

Sono ormai passati venti anni da quando Chatwin non c'è più. Morì nel gennaio 1989 e ancora oggi i viaggiatori s’interrogano sull’irrequietezza che lo spinse in Patagonia.

Però nel frattempo io ho incontrato un altri grandi testimoni delle terre australi.

Un nome? Francisco Coloane, scrittore immenso, scrittore che a volte è come una mano che mi agguanta il cuore.

E' sua la Patagonia che sento mia.