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mercoledì 29 giugno 2011

Sacerdote o esploratore? In viaggio con Don Patagonia. Esce tra poche settimane un mio nuovo libro di viaggio: "Il cacciatore di ombre" (Vallecchi, collana off the road.) Ecco una pagina per introdurlo.




Era una primavera australe dell’anno 1910. Una primavera senza il volo degli albatros, benché in quella stagione migrare in Antartide sia normale.
Il ragazzo con la tonaca e il basco nero è immerso nell’aria argentina dello stretto di Magellano solo sul ponte del traghetto, appoggiato al parapetto. La giornata è sempre più scura, fredda. C’è vento sull’acqua. Non ci sono altri rumori oltre a quello del vento, e del barcone, con quel vecchio motore a scoppio. 
Ora Alberto non distingue quasi più i contorni delle montagne. Sono masse nere che incombono sulle acque. Si vedono affiorare dalla riva piccoli accampamenti con colonne di fumo verticali,  che alle volte il mare gonfio nasconde.
"Ecco, fra poco sono a Punta Arenas. Sto andando incontro al mio destino. Come sarà la città alla fine del mondo?  Come sarà il collegio che mi sta aspettando? Come saranno lassù questi monti della Terra del Fuoco e della Patagonia che si scorgono dal parapetto della nave?"
Il giovane sacerdote si ripete queste parole ancora una volta, mentre il suo lungo viaggio dall’Italia arriva davvero alla fine  con questa lenta navigazione nello stretto di Magellano.
Ora è accovacciato a prua, nella parte esposta al vento della piccola nave. Fa freddo ma sente di essere come a casa, nelle sue Alpi. L’aria fredda gli gela le ossa.
Gli altri passeggeri preferiscono stare riparati nella cabina, lui è solo e guarda verso l’oceano. Respirando, a pieni polmoni.  Questa è aria che viene dal Pacifico. È solo, ma la solitudine difende la sua emozione. Non sa cosa lo aspetta.
L’acqua è mossa, plumbea. Quasi non se ne accorge.
La costa ora è vicina. Può cogliere le fisionomie dei primi abitanti di quelle isole. Facce e corpi arcaici venuti dalla notte dei tempi, così confusi e sradicati che il giovane missionario li avverte prigionieri di una profonda tristezza.
Stanno silenziosi, sulla riva, non salutano, guardano. Lo sguardo sembra fissare quell’enorme canoa che porta ancora uomini bianchi sulla loro terra.
Non sa ancora, Alberto, del “tiro al bersaglio”. Non ha respirato il fumo dei villaggi, l’acre odore della carne macellata e lasciata andare a male, mentre i cani abbaiano. 
Sulle navi che solcavano queste acque c'è gente che si diletta a sparare a tutto ciò che si muove negli accampamenti degli indios. 
Siamo nell’anno 1910, esattamente un secolo fa.

La navigazione è sempre più lenta, il motore della nave ha un respiro affannoso, si avvicina a una piccola isola di sassi preistorici interamente ricoperta di leoni marini.
I maschi pesano quattrocento o cinquecento chili vivono in queste acque dalla notte dei tempi ma Alberto li vede per la prima volta. Enormi e fieri, con la criniera sul groppone, ruggiscono come i loro fratelli nella savana. Stanno ammassati a gruppi circondati dai loro harem di venti o trenta femmine. Sopra di loro, nelle rocce più in alto, migliaia di cormorani immobili come statue di marmo.
Lembi di terra ghiacciata, emersa qua e là quasi per caso.  Ora siamo in estate e Alberto pensa a come saranno queste terre in inverno, con gli artigli del gelo antartico piantati su ogni forma di vita.  E tutt’intorno, per sei mesi, buio, freddo e silenzio.
Già: corre l’anno 1910.
Questo giovane prete della congregazione dei missionari salesiani sbarca nella Terra del Fuoco e comincia la sua nuova vita. In questa terra per lo più ancora da scoprire, percorsa dal vento e dal gelo, abitata da sparuti gruppi di indigeni e da una pessima comunità di avventurieri, finiti in culo al mondo per le ragioni più disparate.
La Patagonia è ancora un parola che evoca un mistero.

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