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domenica 5 settembre 2010

Chatwin, quelle scarpe intorno al collo


Esiste una terra scontrosa, avara di se, innamorata del proprio silenzio, chiusa nella buccia della propria solitudine?

Si chiama Patagonia?

Alle volte mi viene da chiedermi cosa sia stato il viaggio Di Chatwin. Amavo da ragazzo passare ore intere davanti al mio mappamondo. Tracciavo itinerari di viaggi immaginari. Erano sempre le terre estreme a imprigionare la mia fantasia. La Patagonia, assieme alla Terra del Fuoco era sempre in mezzo. Giochi di un ragazzo che, tuttavia, nascevano dal bisogno di scoprire il mondo la dove il mondo sembrava finire. Più ancora: tante fortezze alla frontiera di un altro deserto dei Tartari cui ogni viaggiatore sperduto non sarebbe mai potuto tornare indietro. Come Chatwin il tenente Giovanni Drogo arriva in una terra estrema. Un’esplorazione fatta di lucide visioni, di ombre, di sussulti e misteri, di miti avulsi strappati a qualsiasi riferimento storico, universali perché fuori da ogni tempo. La Patagonia come la fortezza Bastiani. La fortezza è un avamposto al confine con il deserto. La Patagonia è il deserto. E come Drogo, Chatwin arriva in quella solitutine convinto di ripartirne presto. E’ sicuro di se, di avere tutta la vita davanti. Trascorreranno molti anni prima di rendersi conto che il tempo è fuggito e con esso la sua idea iniziale di Patagonia. Ho pensato spesso al bellissimo racconto di Buzzati. Vale la pena rileggerlo in queste terre, per riflettere e guardarsi dentro. L’idea dell’attesa, della speranza, prende anche me, mi tenta nei miei viaggi ma essa è un’idea fin troppo comoda. La ricerca d’indizi che ci possono far credere a questa possibilità è spesso un tentativo inconscio di dare un senso alla nostra immobilità , di giustificarla.

La ricerca delle tracce lasciate da Alberto De Agostini non mi impedisce di dare un’occhiata ogni tanto ai libri di Bruce Chatwin, soprattutto a In Patagonia.

Di Chatwin ho sempre presente una foto. Una di quelle foto che sembrano raccontare per intero una storia di vita: è lui, giovane, single, omosessuale, con le scarpe intorno al collo. Un sorriso dolce ma uno sguardo irraggiungibile, perso verso orizzonti che non ti comprendono.

Bisogna leggere Anatomia dell’irrequietezza per viaggiare con Chatwin alla scoperta di Chatwin. Forse in nessun altro libro o articolo è stato cosi vicino a rivelare che cosa stava al fondo del suo essere e della sua inquietudine di camminatore instancabile.

Come un uccello migratore Chatwin è passato volando sopra le terre immense della Patagonia. Talvolta si è fermato a guardare e descrivere la gente e i posti. I suoi racconti, le sue storie o i suoi schizzi di viaggio sono belli e avvincenti.

Eppure lo voglio dire: io sento e ho dentro di me un’altra Patagonia. E di questo persino mi vergogno. Faccio fatica a parlarne, quasi fosse una manifestazione di vanità o un reato di lesa maestà.

Insomma, sono anch’io convinto che In Patagonia cambiò radicalmente la concezione del racconto di viaggi. Dopo Chatwin i viaggi in America del sud, in Africa o in Australia sono stati compiuti da scrittori con lo stesso orrore del domicilio, la stessa irrequieta erranza, con la stessa disperata volontà di rompere gli schemi dell’incontro con l’altro, il diverso da te.

Tutto vero e non mi passa nemmeno lontanamente per la testa di muovere un rimprovero a Chatwin, sarebbe da parte mia una presunzione smisurata.

Ma ripeto: la Patagonia incollata al mio animo è diversa da quella descritta da Chatwin. D’altronde lui prima di essere un viaggiatore era uno scrittore. Per me forse vale il contrario.

Una volta ho letto una sua intervista, in cui spiegava che nessuna pretesa onestà descrittiva vale al punto da sacrificare un dettaglio inventato che migliori la storia. Questo non può non far pensare. Il viaggiatore non è lo scrittore, e viceversa. Bisogna capire quando parla l'uno, quando l'altro.

Sono ormai passati venti anni da quando Chatwin non c'è più. Morì nel gennaio 1989 e ancora oggi i viaggiatori s’interrogano sull’irrequietezza che lo spinse in Patagonia.

Però nel frattempo io ho incontrato un altri grandi testimoni delle terre australi.

Un nome? Francisco Coloane, scrittore immenso, scrittore che a volte è come una mano che mi agguanta il cuore.

E' sua la Patagonia che sento mia.

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