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martedì 9 dicembre 2008

Dalla Patagonia


UNITED COLORS E INDIANI MAPUCHE

Ancora una volta scrivo queste righe da molto lontano. Sto scendendo il grande continente americano, puntando verso sud, verso le terre che mi piace considerare alla fine del mondo. Scrivo in un momento di sosta in questo mio cammino sulla Carrettera australe, questa interminabile striscia di asfalto ricca di infiniti colori e odori. Il vento del Pacifico si infrange sulle Ande e avvolge tutto quello che incontra. E' una sensazione bellissima.
Però più mi perdo in queste emozioni e più torno a riflettere sulle infinite relazioni che uniscono terre e realtà del mondo. E c'è sempre qualcosa che, sia più o meno visibile, più o meno scontato, mi riporta comunque all'Italia.
Per esempio, questa. Nel mio primo viaggio nella Patagonia cilena e argentina ho avuto la fortuna di conoscere alcuni membri della comunità Mapuche.
Avevo letto da qualche parte che almeno cinquemila comunità indigene rischiano di scomparire con le loro identità culturali e le loro conoscenze. Sapevo degli Adivasi in India o dei Pigmei in Africa, dei popoli siberiani in Russia e, naturalmente, degli indiani d’America. Però non conoscevo la realtà dei Mapuche: un popolo che conta un milione di persone in Cile e forse un altro mezzo milione in Argentina.
E cosi ogni volto che torno in Patagonia mi fermo a Esquel, nella provincia del Chubut, per incontrare Rosa e Attilio Curinonco. La loro storia è straordinaria, vale la pena di raccontarla.
Va subito detto che i Mapuche sono i più poveri ed emarginati tra quanti vivono in Argentina. Da molti anni conducono una lotta e una sacrosanta protesta contro alcune multinazionali. In cima alla lista c’è la United Colors di Luciano Benetton. Le accuse che i Mapuche rivolgono al marchio italiano sono pesanti. Benetton ha acquistato dai governi dell’Argentina e del Cile centinaia di migliaia di ettari, forse un milione, di terra.
Per gli indios sono i luoghi dove sono vissuti e morti i loro antenati, ma oggi, su questo grande latifondo, pascolano più di mezzo milione di pecore della famiglia Benetton. Oggi i Mapuche, che in queste terre hanno sempre vissuto di pastorizia, non possono più disporre né dei pascoli né dell’acqua. Cancelli e recinti sono ormai ovunque. E se trovano lavoro negli allevamenti il minimo che si possa dire è che è sono sottopagati.
Un discorso a parte meriterebbero altre multinazionali, come la Shell e la Mitsubischi, pure loro presenti con ambiziosi progetti di sfruttamento energetico.
In una sola di queste valli, quella del Bio Bio, saranno cancellati migliaia di ettari di foreste e costruite sei nuove centrali. Per alimentarle sarà innalzata una grande diga, che molti scienziati reputano una bomba ecologica, piazzata proprio al centro di uno degli ecosistemi più ricchi dell’America meridionale. Pensare che questi boschi di auracaria sono il regno di innumerevoli specie protette. Puma, gatti selvatici, uccelli rapaci, qui hanno vissuto al riparo dall’avidità e dalla capacità distruttiva dell’uomo.
Cosa succederà domani? Per i Mapuche la risposta è semplice: tutto questo produrrà una ulteriore frattura nel rapporto ancestrale con il loro territorio.
Ma torniamo alla famiglia Curinonco e al loro rapporto con Benetton.
La storia prende lo spunto da una strana sentenza emessa da Tribunale della provincia di Chubut, in Patagonia. Le parti in causa erano il cittadino italiano Luciano Benetton e i coniugi mapuche Attilio e Rosa Curinonco. Il tribunale, era prevedibile, ha dato ragione al primo.
La “ragione” di chi è più potente ha prevalso sulle ragioni di indigeni che, pur senza lo straccio di un documento, rivendicavano il piccolo pezzo di terra dei loro padri da cui erano stati cacciati. Oggi, a distanza di più di quattro anni dopo lo sfratto, quella terra è ancora disabitata e inutilizzata.
Sfrattati dalla loro terra ,sradicati e soli, i coniugi Curinonco continuano a chiedere giustizia. Attendono ancora che qualcuno li ascolti.
C'è anche un pezzo di Italia, anche in questa storia. E noi cosa possiamo fare, per i mapuche?


(Tito Barbini Corriere di Arezzo Sabato 6 Dicembre 2008)



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