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martedì 20 dicembre 2011

Coloane al tempo di Don Patagonia


Chissà perché Francisco Coloane è approdato in questa parte ultima del mondo per depositare le sue tristi storie. Sicuramente è stato spinto quaggiù dalle tempeste della vita.  E’ morto da pochi anni,  alla bella età di novant’anni passati. Le sue ceneri sono sparse nel mare e nella terra indurita dal ghiaccio. Anzi, si racconta che nel momento in cui era gettato in mare un colpo di vento antartico, robusto e traditore, le riportò addosso alle persone che partecipavano al funerale del grande scrittore. E le ceneri si depositarono cosi sulle lacrime di amici e ammiratori.
 Non ho conosciuto Francisco Coloane. So che è venuto in Italia e chi l’ha visto da vicino o ha potuto parlargli assicura che assomigliava, anche fisicamente, ai personaggi dei suoi libri.
Così ce lo racconta Nicola Bottiglieri in uno dei suoi bellissimi scritti sull’esplorazione e sugli esploratori di quella parte di mondo: “Quando incontrai di persona lo scrittore cileno Francisco Coloane nell’agosto del 1999 a Roma, in un albergo vicino al Pantheon, aveva ottantanove e mi diede subito l’impressione che fosse un personaggio dei suoi stessi racconti. Il corpo ancora vigoroso, occhi celesti, un’aria gentile, parlava della sua vita con distacco, come se stesse leggendo le avventure di un racconto scritto da altri. Il segreto di quella conversazione sospesa fra reale e immaginario consisteva nel fatto che egli era stato davvero marinaio e palombaro nello stretto di Magellano, mandriano nella Terra del Fuoco, oltre a essere stato membro della prima spedizione cilena in Antartide, navigando per tre mesi nel mare di Bellinghausen, pertanto riferiva cose straordinarie come se fossero aneddoti banali”.  
Paco, così lo chiamavano gli amici, era uno scrittore che fuggiva alla fama e alla ricchezza. Ho l’impressione che in tutti quegli anni si sia nascosto ai suoi lettori. Come autore tradotto e conosciuto era arrivato tardi, molto tardi in Italia. Non prima della fine degli anni Ottanta. Noi, giovani post sessantottini leggevamo Garcia Marquez e ci lanciavano con entusiasmo nelle avventure del colonnello Buendia e nella fantastica Macondo di Cent’anni di Solitudine.
Anche Neruda, la sua dolce poesia dell’incanto e della tragedia cilena, ci accompagnava alla conoscenza dell’America del sud, per non parlare della Bolivia di Manuel Scorza e del suo Garabondo l’invisibile. Ma Coloane non lo conoscevo.
A parlarcene per primo fu il suo allievo Sepùlveda nella collana che dirigeva in Italia, La frontiera scomparsa. Solo allora conoscemmo il Caronte dei mari ghiacciati. L’umanità coraggiosa che popolava la Terra del Fuoco e i fiordi patagonici. Le storie dei guardiani dei fari alla fine del mondo e i racconti dei balenieri. I cercatori d’oro e gli allevatori, i marinai delle navi naufragate e quelli con l’orecchino d’oro, segno che erano sopravvissuti a Capo Horn e allo scontro dei due grandi oceani.
 E poi, quel Pasquale Rinaldi, napoletano di Castellammare di Stabbia, pirata capace di navigare nello stretto senza radar e alla presenza della nebbia per quasi l’intero anno. 
Anche queste parole sono di Bottiglieri: “Se dietro Melville vi è lo spietato spirito protestante che vede il male come una forza enorme e oscura che angoscia il cuore dell'uomo, con Jack London e la sua lotta per la sopravvivenza vi è il rutilante mondo dei pionieri che rappresentano l'avanguardia dell'impero americano, e Conrad vede nella lotta fra l'uomo e la natura, ma soprattutto in quella natura immortale che è l'oceano, la riproposizione dell'eterno duello fra l'uomo e il male, nell'epica del lavoro di Coloane non vi sono né l'imperialismo inglese, né il dinamismo della nascente nazione americana, né il conflitto fra bene e male, bensì le attività di uomini marginali, che lavorano ai confini del mondo, in paesi molto poveri. In quest'epica dei confini – e questo lo differenzia dagli scrittori di lingua inglese – risuona tuttavia l'eco di una passata grandezza: la conquista della Patagonia, i tentativi di popolare lo stretto di Magellano, la Terra del Fuoco. Insomma i racconti di Coloane mettono in luce una sorprendente realtà latinoamericana, che affonda le radici nel passato coloniale, sconosciuta da tutti e forse proprio per questo molto attraente. Un incontro che rafforzò la nascente convinzione di Darwin sull' evoluzione delle specie e sul fatto che alcuni gruppi di uomini si erano evoluti più rapidamente di altri. Descrisse la loro lingua come una serie di rantoli e di colpi di tosse, di suoni inarticolati e di sbuffi. Solo verso la fine del secolo scorso un missionario che aveva vissuto a lungo con gli Yaganes, Thomas Bridges, compilò un dizionario con più di trentamila vocaboli, il cui originale sta al British Museum. Gli Yaganes avevano una lingua molto più ricca ed espressiva delle lingue europee sulla caccia, sulla pesca, sulla natura e su qualsiasi cosa riguardasse da vicino la loro vita. Coloane, che ha fatto a tempo a conoscerne qualcuno, superstite delle grandi mattanze organizzate dai bianchi, dice che si salutavano con una parola olofrastica, dai molteplici significati: "Mamilapatalla", che voleva dire "cosa tu vuoi da me" e nello stesso tempo "cosa voglio io da te". Credevano in un dio chiamato Volapatuc, il "grande assassino", un nome che si adatta perfettamente a Pinochet". Gli Yaganes furono sterminati tra la fine del secolo scorso e l' inizio di questo secolo, come gli Onas, un popolo della Terra del Fuoco alto e veloce, che cacciava il guanaco correndo e credeva in miti poetici: Osec, la balena franca, si era sposata con Xuno, il vento e dalla loro unione era nato il "picaflores", l' uccello mosca. "In Patagonia arrivarono gli emigranti e con loro i merinos, una pecora che ha bisogno di un ettaro l' anno per vivere. Così gli emigranti, per impadronirsi delle terre degli indiani, diventarono invasori e poi sterminatori. Gli allevatori promettevano una sterlina per una coppia di orecchie di Onas. E quando si accorsero che qualche cacciatore tenero di cuore, blando de corazon, tagliava le orecchie senza uccidere, cominciarono a pretendere i cojones, almeno erano sicuri. Gli indiani e le donne, che nel racconto di Coloane non ci sono, compaiono nella sceneggiatura, scritta con Luis Sepulveda. Il film parte dal racconto, ma si ispira a tutto il mondo di Francisco, narrato con tono epico molto scarno, molto duro e incisivo. Un mondo terribile in cui i personaggi sono sempre dei naufraghi, dei sognatori, degli sconfitti, ma anche pieno di tenerezza, di uomini che sono spinti ad avvicinarsi tra loro proprio da una natura ostile.
Ho ritrovato una fotografia di De Agostini trentenne. E’ in un’isola dell’arcipelago fuegino con attorno una famiglia di indigeni Ona. E’ magrissimo, sembra impacciato. Trovo che ha un sorriso imbarazzato, un’aria timida. Vuol dare l’impressione di essere sicuro di se ma non ci riesce, è goffo. È impaziente che la foto venga scattata. Trasandato, nella sua tonaca lisa da curato e gli scarponi da montanaro, l’immancabile basco nero. Ma è il modo in cui hanno vestito gli indios e il loro sguardo che trasmette una tristezza profonda e non solo a noi ma anche al giovane prete. E’ la fotografia che si avvicina di più al sentimento di Alberto dove si avverte i segni premonitori della tragedia che porterà alla loro scomparsa.


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